2222
7 Novembre 2005

Monti: basta freni su Tav e legalità

Autore: Danilo Taino
Fonte: Corriere della Sera

Mario Monti avverte che «l’Italia non ha tempo per un anno o due di esperimenti» politici dopo le prossime elezioni. «Come cittadino – dice – spero che ciascuna delle due coalizioni risolva i propri problemi interni prima della consultazione elettorale. E poi che chiunque vada al governo abbia uno scatto che gli permetta di affrontare i problemi seri del Paese». Succede che sia la nuova legge elettorale proporzionale sia i contrasti interni al centrodestra e al centrosinistra fanno pensare a molti che, chiunque vinca, il prossimo governo possa essere una specie di ponte verso soluzioni creative capaci di tagliare le ali massimaliste dei due schieramenti e portare a un governo centrista, a uno tecnico, o addirittura a una Grande Coalizione sul modello tedesco. Significherebbe rinviare problemi urgenti, come la perdita di competitività del Paese, e riforme necessarie in tempi brevi.


Professor Monti, lei ha aspettative forti dalle prossime elezioni?

«Non appartengo a coloro che dicono a mezza voce che la prossima legislatura è destinata a nascere con i germi della scarsa governabilità, in attesa di fare poi altro. Non ho la sofisticatezza politica per giudicare questi argomenti ma ho gli occhi per vedere che l’Italia non ha tempo per un anno o due di esperimenti. La dinamica della competitività non lo consente».


Ma vede nei due schieramenti elementi di programma positivi per un governo all’altezza della crisi italiana?

«Credo che da questo punto di vista entriamo in una stagione molto interessante. Da un lato, il governo ha approvato il piano La Malfa per il raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda di Lisbona (liberalizzazione dei servizi e investimenti in ricerca e infrastrutture, ndr). A me sembra importante e ancora più importante sarebbe se venisse accompagnato da un impegno molto concreto per realizzarlo. Dall’altro, anche l’attuale opposizione mi pare stia andando verso la stesura di un programma».


Si riesce a intuire di che genere sarà?

«Romano Prodi, in un’intervista recente a Repubblica , ha parlato di riforme radicali nel commercio, nelle professioni e nei servizi, di privatizzazioni e liberalizzazioni, di coraggio per superare le difese alzate dagli interessi corporativi. E ha aggiunto che occorre fare presto per cogliere le opportunità offerte dalla congiuntura internazionale. Se il programma del centrosinistra si svilupperà lungo queste linee, andrà nella direzione richiesta. Tutti e due gli schieramenti, però, dovranno fare i conti con un problema complicato».


Quale?

«Quello se esplicitare in anticipo le azioni necessarie. In effetti è un dilemma. Chi, in campagna elettorale, sceglie di entrare nel dettaglio dei privilegi da tagliare può temere di perdere in questo modo i voti di certe categorie. Ma chi vincesse sulla base di un programma che ha esplicitato abbastanza i sacrifici che si devono aspettare le diverse corporazioni avrebbe la forza di realizzarlo senza tradire il mandato degli elettori».


Crede che la riforma elettorale in senso proporzionale, oggi in discussione, possa essere positiva per la capacità di una coalizione di governare?

«Da quello che ho letto, non mi è chiaro se riduca o accresca la governabilità. Constato, come ho avuto modo di fare mesi fa, che nelle due coalizioni sono presenti partiti che manifestano forti opposizioni all’esigenza di fare politiche strutturali capaci di ridare sviluppo all’economia italiana».


A proposito. In questi giorni ci sono state le questioni legate alla legalità a Bologna, come reazione a un intervento del sindaco Cofferati. Sono in corso proteste in Val di Susa contro la linea ferroviaria ad alta velocità. E in un’intervista al Corriere, Fausto Bertinotti sostiene che le rivolte nelle periferie francesi sono segno di una crisi di civiltà che potrebbe influenzare anche l’Italia. Cosa ne pensa?

«L’Italia, come altri Paesi, affronta i disagi prodotti dalla globalizzazione ed è proprio per rispondere alle trasformazioni in corso che lo Stato sociale va non abolito, ma modernizzato. Occorre però tenere presente che un Paese ha, tra i suoi punti di forza o di debolezza, anche agli occhi della comunità internazionale, due tipi di infrastrutture. Le infrastrutture fisiche: e l’Italia non può pensare di non accelerare il passo nell’integrazione fisica con l’Europa, per la quale è essenziale una moderna rete di trasporti e rispetto alla quale è in ritardo. Poi, c’è un’altra infrastruttura che è la legalità: è importante per tutti e se manca le imprese smettono di investire. Se hanno successo i blocchi alla Tav e se non si afferma la percezione che la legalità è assicurata, è chiaro che si produrranno meno posti di lavoro, si pagherà un costo sociale».


Vede altre questioni test all’orizzonte, da questo punto di vista?

«Un tema chiave per destra e sinistra sarà per esempio la posizione da prendere sulla cosiddetta direttiva Bolkestein che liberalizza i mercati dei servizi e rispetto alla quale si sentono voci contrarie. La scelta, come ha sottolineato Gian Giacomo Nardozzi sul Sole-24 Ore , è tra il difendere il lavoratore che produce nei settori colpiti dalla concorrenza internazionale e paga cari i servizi italiani oppure difendere l’idraulico e il professionista che glieli forniscono a prezzi alti perché non devono competere».


In Europa si usa dire che ci sono tre grandi malati, Germania, Francia, Italia. E’ così?

«L’attenzione, in effetti, è su queste tre economie. Le quali, però, hanno problemi comuni ma anche dinamiche diverse. Tanto che ora l’attenzione internazionale si sta focalizzando su quella italiana, soprattutto sulle dinamiche della produttività e della competitività. Tra il 1994 e il 2004, la produttività, cioè la produzione per ora lavorata, è cresciuta in media annua del 2% in America, dell’1,8% in Germania, dell’1,6% nell’area euro e dell’1,2% in Italia. Significa che abbiamo avuto una crescita inferiore di un terzo a quella tedesca».


Non poco.

«Un altro dato preoccupante è quello della dinamica del costo del lavoro per unità di prodotto: nei tre anni 2002-2005, è rimasto costante in Germania, è cresciuto del 5% in Francia e del 12% in Italia. Queste due tendenze si traducono in una perdita rilevante di quote di mercato. E’ anche per questo che non abbiamo a disposizione tempo per fare esperimenti politici».


Per superare questo passaggio, ci dobbiamo aspettare uno stimolo dall’Europa o il ruolo propulsivo dell’Unione europea è da considerarsi finito?

«Non credo che la paralisi europea sia definitiva ma è preoccupante. E la pressione positiva esercitata su di noi in passato dalla Ue oggi è meno forte: per attaccare i privilegi delle diverse categorie che ingessano l’economia, cioè la cosa prioritaria da fare, questa volta sarà di importanza decisiva trovare la forza all’interno del Paese. Se le tendenze di cui abbiamo appena parlato continueranno, si ridurranno sempre di più le probabilità di creare e quindi di trovare lavoro: la perdita di competitività è l’emergenza dei nostri anni e, se non la sapremo affrontare, l’Italia, in futuro, sarà più povera. Ma dipenderà soprattutto da noi riuscirci».

Servirebbe perciò una classe dirigente forte. La vede, in Italia?

«Per quel che riguarda le classi dirigenti politiche, è chiara la debolezza della loro leadership in tutta Europa. Se invece ci riferiamo alle classi dirigenti in generale, quella italiana non ha ancora una sufficiente compenetrazione nel quadro internazionale. Una classe dirigente è anche il risultato dell’assetto più o meno competitivo di un Paese: da questo punto di vista, si può dire che anche nella classe dirigente l’Italia ha una concorrenza insufficiente. Sì, direi che il problema esiste».