La proposta di modifica della legge elettorale presentata dalla «Casa delle
libertà» ha sollevato la durissima protesta dell’opposizione e molte perplessità
anche nella maggioranza sostanzialmente per tre ragioni: i tempi, i modi, il
merito.
La prima critica, almeno formalmente, è discutibile: varare un nuovo metodo
elettorale all’inizio della legislatura toglie rappresentatività a coloro che
sono stati eletti con regole diverse. Tanto è vero che fu lo stesso
centrosinistra, quand’era in maggioranza, a chiedere, alla vigilia del voto, una
correzione di quella legge. Solo quando l’opposizione del centrodestra si
dichiarò non disponibile alla discussione, la proposta venne ritirata.
Questo piccolo richiamo alla memoria è utile anche perché giustifica
ampiamente l’accusa sul secondo punto, quello dei modi. Le regole non si possono
cambiare per la sola volontà di chi, alla luce di tutti i sondaggi, teme di
perdere le prossime elezioni e, quindi, si ritaglia una legge più favorevole
alla propria parte. La proposta avanzata dalla maggioranza, se approvata,
rimetterebbe, forse, in gioco un risultato che, almeno finora, sembra scontato.
Più probabilmente, non eviterebbe al centrodestra la sconfitta, ma ne
ridurrebbe, in maniera vistosa, le proporzioni. Cambiare il gioco, perché da un
po’ di tempo non riusciamo più a vincere, è una tentazione alla quale, da
piccoli, abbiamo ceduto molte volte. E’ meglio lasciarla alle nostalgie dei
ricordi d’infanzia.
Resta il terzo punto: il merito. Le leggi elettorali, innanzi tutto, non
sono un tabù, ma sono strumenti che devono servire a uno scopo. Se si rivelano
inadatte e insufficienti per raggiungere l’obiettivo, o ottengono risultati
addirittura contrari al fine per cui erano state pensate, si possono, anzi, si
devono cambiare. In un sistema democratico vanno contemperate due esigenze
fondamentali: la rappresentatività del Parlamento rispetto agli orientamenti del
Paese e la garanzia di una efficace e stabile governabilità. Sia il sistema
proporzionale sia quello maggioritario possono, in diversi modi, soddisfare
entrambe queste due condizioni. Quello che non è ammissibile è l’incoerenza
dello strumento che si vuole usare.
Insomma, il pasticcio tra l’uno e l’altro
dei due metodi di voto. Ed è questo il difetto sostanziale, nel merito, della
proposta avanzata dalla «Casa delle libertà». Basti pensare che riesce nel vero
capolavoro di indebolire, contemporaneamente, sia la rappresentatività sia la
governabilità: la prima, quando rischia di non tradurre in seggi quasi il dieci
per cento del voto espresso dagli elettori, con l’eventualità di far perdere in
Parlamento chi ha vinto nelle urne. La seconda, allentando il vincolo di
coalizione e aumentando il potere di ricatto dei piccoli partiti, poiché non
prevede nemmeno una norma antiribaltone.
Anche in questo caso bisogna sgombrare il campo da due obiezioni. La
ricerca di coloro che erano a favore del maggioritario e che, ora, sono
proporzionalisti accaniti, o viceversa, è del tutto inutile. Non perché non si
possa cambiare idea, ma perché, in politica, la convenienza fa sempre premio
sulla coerenza. Così come ricordare che due referendum dimostrarono la
preferenza degli italiani per il maggioritario è altrettanto vano. Non tanto
perché la Costituzione consenta al Parlamento la possibilità di ignorare o
modificare l’esito di una consultazione popolare, quanto perché la nostra storia
recente ci insegna che la classe politica è abituata a farlo senza alcuno
scrupolo. Vi ricordate, solo per fare un esempio, della fantomatica abolizione
del ministero dell’Agricoltura o dell’altrettanto illusoria privatizzazione
della Rai
Riuscire ad approvare una tale riforma della legge elettorale, con
l’ostruzionismo dell’opposizione e con la corsa alle modifiche che, ieri, sia
dall’Udc, sia da An, tra l’altro in contraddizione tra loro, è subito partita,
sembra assai difficile. In ogni caso, per la disputa tra il partito di Follini e
il premier che si è accesa nel centrodestra, il vantaggio di provarci è
reciproco.
Se il Parlamento riuscirà a votarla, l’Udc vanterà un importante
successo politico che giustificherà la rinuncia alla sostituzione della
candidatura di Berlusconi a Palazzo Chigi. Con le nuove regole, poi, questo
partito si sottrarrà al rischio di una forte riduzione della rappresentanza, in
caso di dissenso dal leader della coalizione e si assicurerà un più libero
margine di manovra nella prossima legislatura. Se il tentativo fallisse, non
potrebbe imputare a Berlusconi di non averci provato, potrebbe legittimamente
chiedergli la garanzia di una adeguata riserva di seggi e, in caso di sconfitta,
potrebbe ricordare a tutti che, con la persistenza di quel candidato premier,
l’aveva ampiamente e pubblicamente previsto.
Anche per Berlusconi il saldo dell’operazione potrebbe essere, in ogni
caso, vantaggioso: con l’approvazione della nuova legge potrebbe sperare di
vincere o di perdere meno pesantemente. Ma anche con il fallimento del tentativo
di modifica elettorale, un risultato lo otterrebbe: dimostrerebbe all’Udc la sua
buona volontà, costringendola ad accettare la sua candidatura e a impedire fughe
dalla «Casa delle libertà». Ma il risultato del voto A questo proposito bisogna
ricordare che i politici fanno sempre loro il motto di Rossella O’Hara: «Domani
è un altro giorno». La protagonista di «Via col vento», poi, non poteva saperlo,
ma quella massima l’aveva inventata Silvio Berlusconi.