Requiem per il cattolicesimo liberale italiano. Questo è il risultato dell’operazione di convincimento e di intimidazione della Conferenza episcopale italiana sui cattolici perché disertino il voto referendario. La vittima più illustre è Romano Prodi, costretto ad una sofferta giustificazione che certamente non rafforza la sua leadership. Eppure per un liberale (laico o cattolico) gli argomenti usati per invitare alla diserzione non sono affatto convincenti. Anzi sono in flagrante contraddizione con la gravità della posta in gioco che motiva tanto impegno della Chiesa italiana.
Nell’invito a disertare le urne sono usati due argomenti: uno giuridico formale, l’altro di sostanza. Il primo si appella al principio della logica referendaria che non ha la stessa forza vincolante di una consultazione di carattere generale. Ma si tratta di un argomento specioso che mette sullo stesso piano un referendum sulla caccia con quello sulla regolazione della fecondazione assistita, che tocca questioni cruciali di etica pubblica. Qui entra in evidente contraddizione con il secondo argomento, che insiste sulla complessità e sulla delicatezza dei problemi sul tappeto. La questione – si dice – è troppo grave per poter essere risolta con un referendum, che per sua natura ha carattere soltanto negativo-abrogativo, anche se la legge approvata non è affatto perfetta.
Sembra un argomento di buon senso (paternalistico) ma dissimula il fatto che la legge non è stata approvata da un comitato di saggi sopra le parti, dopo attenta riflessione. Ma è il prodotto di una operazione politica della maggioranza, giocata con le regole aritmetiche del Parlamento. A questo punto non si può declassare il referendum ad un optional del cittadino. Non ha senso presentare e approvare la legge sulla fecondazione come prova di civiltà, a favore del «primato della vita», respingendo tutte le ragionevoli controproposte correttive, e declassare ora il referendum come un inutile e pericoloso espediente.
In questa ottica, non è sufficiente neppure l’atteggiamento «pragmatico» (decidere quesito per quesito) suggerito da alcuni liberali laici per evitare uno «scontro di civiltà» (così Angelo Panebianco sul Corriere). Per cominciare, l’intero dibattito è già stato impostato come un problema di civiltà morale – non solo da parte della Chiesa ma anche dal Comitato Scienza e Vita, che nel suo manifesto si esprime con toni di militanza ideologica anziché di confronto ragionato di argomenti.
La decisione su singoli quesiti implica di volta in volta precisi convincimenti sulla natura e sulla qualità del processo biologico e quindi su corrispondenti criteri etici che non si possono ricondurre ad atteggiamenti puramente pragmatici. Decidere sul destino degli embrioni soprannumerari o sulla piena legittimità della diagnosi pre-impianto – non sono soluzioni pragmatiche. Su questi punti collidono necessariamente «visioni della vita» in contrasto. Anzi una democrazia autenticamente laica deve fare i conti espressamente con ethos divisi e divisivi dei suoi cittadini. Ma nel contempo – proprio per non esporsi all’obiezione di relativismo etico – deve ricercare principi etici comuni e quindi definire normative ragionevolmente consensuali. In ogni caso deve evitare norme coercitive dettate da una «visione della vita» che nega la dignità etica di un’altra. Questo manca non solo nello spirito e nella lettera della legge approvata ma nel confronto oggi in atto.