Benedetto XVI conosce certamente la poesia di Heinrich Heine che gli
alunni in Germania imparano a memoria. S’intitola Germania-Fiaba
d’Inverno, e non solo è difficile tradurne la cadenza ma è difficile
trasmettere quel che per i tedeschi significa: è una scheggia piantata
nel cuore, non si stacca. Il poeta narra come un giorno torna in
patria, e ascolta la strana nenia cantata da una fanciulla con
sentimento vero e voce falsa: la nenia evoca l’amore e le miserie
d’amore, il sacrificio e il ritrovarsi in un mondo migliore, dove tutte
le sofferenze scemano.
Evoca la valle di lacrime che è la
terra, le gioie che svaniscono presto, e l’Aldilà dove l’anima nuota,
trasfigurata, in eterne delizie. D’un tratto Heine cambia tono, rompe
l’incanto: «Era la vecchia canzone della rinuncia, la ninnananna del
cielo con cui si culla il popolo, questo gran villano, quando mugugna».
Il Santo Padre non ha intonato un canto diverso, il 6 ottobre, in
apertura del Sinodo internazionale dei vescovi. Ha detto parole
bellissime e commosse, come la fanciulla di Heine che suona l’arpa. Ma
è una nenia per bambini, la sua, anche se così negativa sul mondo: è
indifferente alla tempesta che in questi giorni agita l’economia del
pianeta, alle sofferenze che scatena.
Non ha parole per
descrivere l’inverno di tutto un mondo, che stiamo vivendo: la dura
scoperta del reale, che Heine colloca «nel triste mese di novembre,
quando il vento strappa le foglie dagli alberi, i giorni diventano più
foschi, il cuore è come se lentamente sanguinasse». Il testo del
Pontefice, se non fosse stato detto in pubblico e nel momento che
traversiamo, se fosse una mistica segreta preghiera, resterebbe nel
ricordo come traccia sublime. Parla del visibile e dell’invisibile di
cui la creazione è fatta; del vero realismo, che non costruisce sulla
sabbia ma sulla roccia. Ma anche in lui, d’un tratto, il sublime sembra
spezzarsi: «Tutto questo un giorno passerà. Lo vediamo adesso nel
crollo delle grandi banche: questi soldi scompaiono, sono niente. E
così tutte queste cose, che sembrano la vera realtà sulla quale
contare, sono realtà di secondo ordine. Chi costruisce la sua vita su
queste realtà, sulla materia, sul successo, su tutto quello che appare,
costruisce sulla sabbia. Solo la Parola di Dio è fondamento di tutta la
realtà».
Nemmeno se avesse detto queste parole vestito d’un
saio – non era vestito d’un saio – il Papa sarebbe stato vicino a chi
soffre. Le parole son belle, ma nella voce è come se mancasse un poco
di bontà, di veridicità. La voce non dice quel che propriamente sta
accadendo. Denuncia una sorta di danza panica attorno al dio denaro,
mentre quel che viviamo è un risveglio amaro e una prova scabrosa. È
l’uscita costosa da molteplici bolle d’illusioni, ed è lo sforzo che ci
tocca fare per non incapsularci in altre bolle: ieri la bolla che
dilatava irrealisticamente il valore delle cose, oggi la bolla che le
svaluta indiscriminatamente tutte; ieri si credeva che il mercato si
regolasse da solo, oggi si sogna uno Stato di nuovo onnipotente. Come
altre volte in passato – le terribili crisi finanziarie narrate da
Emile Zola sul finire dell’800, nel romanzo Il Denaro; il grande crollo
del 1929 – quel che rischia il naufragio è la parte migliore dell’uomo:
la fiducia innanzitutto, quest’inclinazione che fonda la civiltà e il
coesistere umano pacifico. All’origine del tracollo borsistico c’è un
precipizio mondiale della fiducia: fiducia nel mercato e nella
politica, negli imprenditori e nella finanza, fiducia del cittadino
verso le banche e delle banche tra loro. Ecco, davvero, un nichilistico
non credere più in nulla, non aver più fede nella buona fede
dell’altro.
Al posto della fiducia si insediano sospetto,
diffidenza verso i simili, paura che la vita dell’uomo, come nello
stato di natura descritto da Hobbes, «trascorra solitaria, povera,
brutale e breve». Il denaro appare in questi scenari apocalittici come
sporco, diabolico. Lo pensava Marx, che citando Shakespeare lo chiamava
prostituta. Lo pensavano i bolscevichi, che fantasticavano d’abolirlo.
A destra lo pensava Charles Maurras, che l’associava alla democrazia,
ai giornali, al dominio dell’opinione. Eppure è proprio grazie al
denaro, alla sua natura astratta, simbolica, che la fiducia si
rafforza: se io ti vendo un oggetto in cambio di una banconota fatta di
carta vuol dire che scommetto sulla tua onestà, che credo in una
convenzione sconnessa dagli oggetti. La fiducia può essere eccessiva, è
vero. Ma è vero anche il monito di un altro grande tedesco, Friedrich
Hebbel: «Chi ha cominciato a fidarsi di tutti, finisce col considerare
chiunque come un farabutto».
Il pericolo è qui: che dalla
fiducia illimitata si passi alla sfiducia illimitata; che l’economia di
mercato, da angelo che era, appaia come un farabutto. Le parole di
Benedetto XVI non danno fiducia ma accrescono sfiducia, panico, e
questo sordo divorante sospetto. Infine ci sono i poveri, gli ultimi.
Difficile dir loro che quel che è visibile è chimera, che bisogna
guardare alla vera realtà dell’oltre mondo perché questo mondo passerà.
Nell’intimo possiamo pensare – capita spesso – che il male sia in
terra. In pubblico siamo responsabili della fiducia in rovina. La crisi
non colpisce solo gli speculatori. I deboli hanno da temere la perdita
di lavoro, l’insicurezza della pensione, le minacce di pignoramento, la
restrizione del credito, i salvataggi pagati dal contribuente, il
carovita. Al crac finanziario s’aggiunge inoltre l’aumento dei prezzi
alimentari, che resterà a nostro fianco quando le borse riprenderanno:
un numero sempre più grande di poveri morirà di fame sulla terra. È
bello ricordare che il pane quotidiano è in realtà soprasostanziale,
come nella versione greca e latina di Matteo 6,9-13. Ma il pane
invocato è anche quello fatto di farina, acqua e sale. La Chiesa ha
antiche diffidenze verso il denaro, nonostante la Bibbia sia in materia
contraddittoria. È come se desiderasse il ritorno all’economia del
baratto, pur di liberarsi dal dio Mammona.
Ma nel baratto
scambiamo un oggetto contro un altro, e non per questo siamo più liberi
e sicuri d’ottenere giustizia. Siamo meno liberi, perché dipendiamo
dalla persona con cui barattiamo. Abbiamo sempre il sospetto che lo
scambio non sia completamente equo, perché forse le quattro sedie che
dò in cambio di una stufa hanno per me un valore che l’altro non
valuta. Simmel spiega bene come il denaro – grazie alla sua natura
astratta, spersonalizzata – liberi interiormente da rancori oltre che
da schiavitù e renda più giusta la proprietà, oltrepassando le
appropriazioni ineguali, senza scambio, che sono il furto e il dono.
«Il denaro crea rapporti fra gli uomini, ma lascia gli uomini al di
fuori di essi, è l’equivalente esatto delle prestazioni oggettive ma un
equivalente molto inadeguato per ciò che vi è di personale e
individuale in esse» (Georg Simmel, Filosofia del Denaro). Il denaro è
fiducia nell’uomo, è entrare in relazione con lui senza paura. Il
cardinale Siri, che era un conservatore, coltivava una vicinanza ai
poveri che spesso è coltivata dai veri conservatori. Usava ripetere il
proverbio: Homo sine pecunia imago mortis. L’uomo senza
denaro è immagine della morte: è uomo chiuso, che diffida del simile,
che non pratica lo scambio, amicistico o mercantile.
Anche
queste antiche saggezze sono realistiche, autenticamente: non
inventano, non costruiscono sulla sabbia. L’assenza di pecunia è
assenza di cibo, di vita, di fede nell’altro. Gli accenni di Siri al
denaro fanno pensare a una Chiesa che non si occupa solo dei primi nove
mesi di vita e delle ultime ore dell’uomo, ma anche di quello che c’è
in mezzo: un corto tragitto mortale, ma non sprezzabile. Non
incantabile, comunque, con l’Eiapopeia vom Himmel, con la ninnananna
del cielo.