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4 Novembre 2005

L’Ulivo verso il Partito Democratico

Autore: Governareper
L’Ulivo è il nome che dal febbraio del 1995 abbiamo dato ad una prospettiva
nuova per la politica italiana. È il nome che abbiamo dato ad una «cosa» che non
eravamo in condizione di definire compiutamente ma potevamo solo evocare, e che
oggi cominciamo a chiamare «Partito dei democratici». Non si tratta di una idea
di cui singoli individui possano rivendicare la primogenitura. Si tratta di una
corrente carsica che ha attraversato per almeno un quindicennio la storia del
nostro Paese prima di sfociare nel fiume in piena di molti di noi, milioni di
persone civilmente in fila davanti ai seggi delle primarie, il 16 ottobre
2005.

L’Ulivo, il Partito dei democratici, non era e non è solo un nuovo soggetto
politico. È il soggetto politico di cui abbiamo bisogno per rimarginare ed
archiviare le ferite prodotte nel campo riformatore dalle ideologie del
novecento, per dare al centrosinistra un solido baricentro segnato da una
cultura di governo, per dare all’Italia un governo forte e una democrazia
sana.

L’Ulivo è nato ed è di nuovo in campo per dare compimento alla transizione
politica italiana. Per dare all’Italia una prospettiva duratura di crescita, per
consentire all’Italia di restare un partner autorevole dell’Unione Europea e per
consentirle di contribuire, per quella via, alla costruzione di un mondo più
equo e pacifico sul piano internazionale.

L’Ulivo è nato per rendere possibile e cogliere positivamente la sfida di
una democrazia resa più efficiente e meno opaca dal rigenerante meccanismo
dell’alternanza. L’Ulivo è nato per affermare finalmente nel nostro paese un
confronto politico civile tra due proposte alternative, disposte ad alternarsi
civilmente alla guida del governo. L’Ulivo è nato per superare, insieme alle
logore divisioni ideologiche del passato, la democrazia del negoziato
permanente. Quella visione della rappresentanza che concepisce i partiti come
proiezione di segmenti ristretti della società e poi li induce a lottare per la
ricerca della propria porzione di visibilità e potere, anche a discapito di un
efficace esercizio della funzione di governo.

Per la sua natura, il Partito dei democratici si potrà quindi pienamente
affermare solo nel quadro di un assetto di regole elettorali e costituzionali
improntate al principio maggioritario, simili a quelle di altre grandi
democrazie parlamentari europee. E del resto solo un forte partito riformatore
può dare stabilità, sostanza ed equilibrio alla democrazia competitiva in
Italia, sottraendola alla deriva personalista e populista che altrimenti rischia
di prendere il sopravvento. Per queste ragioni, chi oggi, dopo il segnale forte
e chiaro dato dal popolo delle primarie, vuole davvero contribuire al progetto
dell’Ulivo, chi vuole sul serio riprendere il cammino iniziato nel febbraio di
dieci anni fa, deve al tempo stesso compiere passi conseguenti verso la
costruzione del Partito dei democratici ed impegnarsi a ricostituire regole
istituzionali adeguate ad una matura democrazia governante.

Le elezioni primarie che si sono svolte il 16 ottobre 2005 sono da questo
punto di vista una pietra miliare, resa inestirpabile dal peso dei quattro
milioni e trecentomila cittadini italiani che vi hanno partecipato. Le primarie
hanno dato vita alla più grande associazione politica oggi esistente in un
qualsiasi paese europeo e hanno dimostrato che esiste, tra gli elettori di
centrosinistra, una tensione verso l’unità e una domanda di partecipazione di
dimensioni e intensità tali che neppure i più fiduciosi tra noi potevano
immaginare. Le primarie hanno anche affermato il principio secondo cui gli
elettori, quando votano per il Parlamento, intendono scegliere congiuntamente
una maggioranza e il suo leader. Hanno affermato inoltre, nei fatti, il
principio secondo cui se quel leader viene per qualche ragione messo in
discussione nel corso della legislatura, non vi sono alternative sensate ad uno
scioglimento anticipato delle camere.

Regole adeguate ad una democrazia matura
Il centrosinistra è stato e sarà sempre fermo nell’opporsi ad ogni
tentativo di stravolgere la Costituzione a colpi di maggioranza. I valori in
essa sanciti rimangono il fondamento della convivenza civile nel paese e della
salute delle istituzioni repubblicane. Quei valori sono parte imprescindibile
della nostra storia. Sono le radici della nostra democrazia e non possono essere
messi in discussione con leggerezza da risicate maggioranze di governo. Neppure
le necessarie modifiche della Seconda parte, quella che disciplina la formazione
e i poteri delle istituzioni, dovrebbero essere varate senza un largo
consenso.

Che la costituzione del 1948 vada ammodernata non ci sono dubbi. Sia nella
XIII che nella XIV legislatura il centrosinistra ha riconosciuto e sostenuto la
necessità di modificarne alcuni aspetti, anche in considerazione dei cambiamenti
che sono già intervenuti nelle dinamiche materiali del sistema
politico.

Tutti i leader di partito hanno imparato che per vincere le elezioni devono
costruire coalizioni pre-elettorali ampie e identificare un candidato comune
alla guida del governo. Questo ormai chiedono gli elettori, che vogliono sapere
chi viene candidato a guidare il governo, e questo chiede la componente
maggioritaria del sistema elettorale, che premia (anche se in misura risicata)
le alleanze larghe. Ma le coalizioni fino ad oggi sono state messe in crisi nel
corso della legislatura dalla tendenza dei singoli partiti che le compongono a
differenziarsi l’uno dall’altro. Nonostante l’imperfetto meccanismo elettorale
adottato nel 1993, anche da questo punto di vista, da allora ad oggi, si è
andato comunque svolgendo un processo di apprendimento. Nel 1994 il polo
vincente era solo la somma di due distinte coalizioni elettorali e, per questo,
ne risultò un Governo di breve durata. Nel 1996 l’Ulivo aveva stabilito solo un
patto di desistenza con Ri-fondazione, per sua natura debole e che comunque
consentì un Governo dell’Ulivo di due anni e mezzo, mentre la Lega non era parte
della Casa della Libertà. Nel 2001 il centrosinistra era ancora diviso mentre
oggi si appresta ad affrontare le elezioni politiche dopo avere sancito la sua
unità intorno ad una solida leadership comune¸ mentre il centrodestra ha
governato per 5 anni con la stessa maggioranza e lo stesso Premier. Questo
processo di apprendimento rischia oggi di essere interrotto a causa del
disin-volto opportunismo della Casa delle liberta.

Il centrodestra ha approvato a maggioranza una riforma confusa e
contraddittoria della Costituzione, pur di dare alla Lega un bandiera ideologica
da sventolare in campagna elettorale e pur di trovare un accordo al suo interno.
Ha poi varato una vergognosa riforma del sistema elettorale tesa soltanto a
limitare i danni di una sconfitta annunciata. Pur di trovare un qualche accordo
al suo interno, non ha esitato ad umiliare il Parlamento e rinunciare all’idea
di una Costituzione patrimonio comune di tutto il popolo italiano. Pur di
difendere qualche seggio parlamentare e mettere in difficoltà il centrosinistra
non ha esitato a prendersi gioco dei 29 milioni di persone che votarono contro
il sistema proporzionale nel 1993. Non ha esitato a cambiare le regole del gioco
a pochi mesi dalle elezioni, non ha esitato a modificare la regola che le ha
consentito, nel 2001, di ottenere un numero di seggi sufficienti a tenere in
vita per tutta la legislatura il governo Berlusconi, non ha esitato a mettere a
repentaglio quei minimi elementi di stabilità che negli ultimi quindici anni il
sistema politico italiano ha faticosamente conquistato. I parlamentari della
cosiddetta Casa delle Libertà non hanno esitato nemmeno a varare una legge
elettorale in palese contraddizione, per quanto riguarda la risibile entità del
premio di maggioranza, con la riforma costituzionale da loro stessi approvata.
Per di più enormi collegi plurinominali, con lunghissime liste bloccate,
allontanano eletti ed elettori, a differenza di quanto accade nelle altre grandi
democrazie europee, dove si usa il collegio uninominale o, in alternativa,
collegi plurinominali con liste corte di 3 o 4 nomi che permettono di
responsabilizzare i rappresentanti nei confronti di chi li elegge.

Il popolo delle primarie ha già dato un segnale forte e chiaro contro la
loro sconsiderata furbizia e il loro disprezzo per le istituzioni, contro la
scelta di tornare indietro, per ragioni di bottega, verso l’era della palude
centrista e del proporzionale. L’Ulivo e il centrosinistra devono rispondere sia
sul piano politico (dando vita ad una nuova forza politica, a vocazione
maggioritaria) sia su quello istituzionale alle furbizie sconsiderate del
centrodestra e al monito degli elettori.

L’Ulivo è nato del resto in continuità con il movimento per le riforme
elettorali ed istituzionali che condusse all’adozione dei nuovi sistemi di voto
per i comuni e le province e che portò, dopo l’imponente pronunciamento del
popolo italiano attraverso il referendum del 18 aprile del 1993, alla revisione
dei sistemi elettorali per la Camera e il Senato. Quelle innovazioni hanno ha
promosso la dinamica bipolare e hanno nei fatti già modificato il processo di
formazione delle maggioranze e di legittimazione dei governi. Si tratta ora di
dare compimento alla transizione con adattamenti della costituzione che
stabilizzino la dinamica bipolare, mantengano in capo ai cittadini la scelta su
chi li deve governare, favoriscano la continuità di governo nel corso della
legislatura, disincentivino le tendenze autodistruttive prodotte ciclicamente
dalla competizione tra gli stessi partiti di maggioranza, snelliscano il
processo legislativo e mettano fine al nostro eccentrico «bicameralismo
perfetto». Per dare compimento alla transizione è necessario un adattamento
della Costituzione che sancisca l’investitura congiunta della maggioranza e del
suo leader, e che sancisca una chiara imputazione di responsabilità per la guida
del governo nelle mani del Primo Ministro.

Si intende che è necessario al tempo stesso introdurre o rafforzare alcuni
elementi di equilibrio del sistema a tutela della sua democraticità e dell’unità
della Repubblica, i quali consistono in una valorizzazione del ruolo di
moderazione del Capo dello Stato, del ruolo di controllo del Parlamento ed al
suo interno in particolare dell’Opposizione, del ruolo di garanzia, al di fuori
delle parti, della Corte costituzionale e delle Autorità indipendenti. Un
ulteriore decisivo elemento di equilibrio e rasserenamento del clima politico
deve inoltre venire da una forte ed effettiva garanzia di pluralismo dei mezzi
di informazione, oltre che di equidistanza dai soggetti politici da parte del
servizio radiotelevisivo pubblico.

Nonostante le rozze forzature che la Casa delle Libertà ha voluto imporre
al Parlamento e al Paese nel corso della XIV legislatura, l’Ulivo non può
abbandonare, insomma, l’obiettivo di dare finalmente all’Ita­lia un governo
forte e una efficace democrazia dell’alter­nan­za. L’Ulivo ha il dovere di
mantenere ferma e coerente la sua strategia di ammodernamento delle istituzioni
repubblicane proprio per difenderle dalle spregiudicate furbizie di cui la Casa
delle Liberta ha dato prova anche in questo campo delicatissimo.

Nella prossima legislatura il centrosinistra e l’Ulivo dovranno fare tesoro
anche dei loro errori. Un adattamento della Costituzione è utile per adeguare
l’impianto voluto dai padri costituenti alla nuova realtà del sistema politico
italiano e alle esigenze di un governo efficace. Ma se vogliamo che serva
davvero a sancire la fine della transizione non può essere un adattamento
approvato a maggioranza. Le proposte dell’Ulivo andranno discusse ed approvate
«insieme», come sanciva la tesi numero 1 dell’Ulivo nel 1996, ed dovranno
includere una riflessione sulle clausole, in particolare l’articolo 138, che
impediscano a maggioranze temporanee o improvvisate di modificare le regole
della democrazia.

In ogni caso, il primo passo di una qualsiasi ulteriore discussione sulle
regole della democrazia non può che essere costituito da un immediato ripristino
delle leggi elettorali del 1993. Non che quelle siano le migliori leggi
elettorali possibili. Ma, se la XV legislatura dovesse inopinatamente terminare
prima che sia approvata una qualsiasi organica e meditata revisione dell’assetto
istituzionale, è con quelle leggi elettorali che i cittadini dovranno tornare ad
esprimersi, e non con le leggi partorite dalla sconsiderata furbizia dei leader
e dei parlamentari del centrodestra. Se poi in corso di legislatura vi sarà
spazio per perfezionamenti condivisi nel segno di una democrazia governante e di
un rapporto ravvicinato tra eletti ed elettori, tanto meglio. Ma anzitutto va
sanata la ferita di fine legislatura.

Un nuovo inizio

Il 16 ottobre non abbiamo assisto solo ad una protesta, determinata e
civile, contro lo sfregio alle regole del gioco da parte del centrodestra.
Abbiamo assistito ad un evento di dimensioni  straordinarie. Alla rivelazione di
un sentimento che nessuno avrebbe immaginato potesse essere tanto intenso,
composto e diffuso. Abbiamo assistito ad una grande prova di civismo, che al
tempo stesso segnala l’ampiezza del consenso di cui oggi gode il leader
dell’Ulivo, Romano Prodi, e l’esistenza di una forte domanda di partecipazione
ed unità tra i sostenitori del centrosinistra. Quattro milioni e trecentomila
persone hanno detto esplicitamente che si riconoscono nell’Unione, hanno
sottoscritto la sua carta dei principi, hanno contribuito al suo finanziamento,
hanno scelto un leader, gli hanno dato mandato a candidarsi, per loro conto,
alla carica di primo ministro e a guidare il governo in caso di vittoria alle
elezioni del prossimo aprile.

Innanzitutto, questo «patto», come chiarisce fin dalle prime righe lo
Statuto delle primarie, non riguarda soltanto gli elettori e il leader. Si
tratta di un patto a tre, che coinvolge gli elettori, il leader e i dirigenti
degli attuali partiti del centrosinistra. Sottoscrivendo lo Statuto, i
rappresentanti delle forze politiche aderenti all’Unione, hanno detto di voler
«promuovere la massima partecipazione da parte dei propri militanti ed elettori
alla scelta del candidato comune alla carica di Presidente del Consiglio» ma
anche di volere, al tempo stesso, «far prevalere le ragioni della loro unità
intorno ad una solida e autorevole leadership, portatrice di un programma il più
possibile condiviso, capace di guidare la coalizione durante la campagna
elettorale e, in caso di vittoria, di guidare il Governo per l’intera
legislatura».

In secondo luogo, con questo patto si costituisce di fatto la più grande
associazione politica oggi esistente in un qualsiasi paese europeo. Quattro
milioni e trecentomila cittadini italiani, in una sola giornata, in tutti i
comuni del paese, si sono recati di loro iniziativa ai seggi, individualmente,
non in gruppi, con i propri mezzi, non trasportati da mezzi collettivi: hanno
firmato pubblicamente l’adesione a un progetto comune, dichiarando
esplicitamente di riconoscersi nell’Unione, sottoscrivendo pubblicamente davanti
ad una commissione che ha verificato la loro identità e la titolarità del loro
diritto di voto, hanno versato il loro contributo per un obiettivo condiviso,
hanno espresso il loro consenso a che il loro nome e cognome venisse registrato
e potesse essere conosciuto da chiunque ne  facesse richiesta. Hanno fatto molto
di più di quanto fa normalmente l’elettore e più di quanto fa normalmente chi si
iscrive a un partito politico.

Si tratta di una novità che nessuno può sottovalutare. Da trent’anni a
questa parte in tutta Europa si assiste ad un allentamento dei legami tra i
partiti ed i loro sostenitori. Diminuisce il numero delle persone che si
identificano con i partiti, cala la partecipazione elettorale, sono sempre meno
gli iscritti ai partiti e ancor più vanno diminuendo, tra gli iscritti, quelli
che effettivamente partecipano alle attività di base. Le informazioni messe a
nostra disposizione dalla ricerca empirica mostrano che i cittadini attivi nelle
organizzazioni dei partiti del centrosinistra sono a mala pena quattrocentomila:
undici volte di meno dei partecipanti alle primarie. Si tratta di un fenomeno
che ha anche aspetti positivi. Il voto non è più espressione di una appartenenza
o della somma di appartenenze ma sempre più di una opinione e di una scelta. Gli
elettori sono più liberi dalle ideologie che avevano dominato la scena politica
fino agli anni settanta. Ma i partiti rischiano di diventare scatole vuote. La
loro classe dirigente rischia di essere del tutto autoreferenziale, anche a
causa del fatto che nel frattempo le strutture centrali dei partiti sono
diventate più ricche, dipendono molto meno che in passato dal sostegno dei
militanti, molto di più dai finanziamenti pubblici e dal sostegno dei media.
Quasi ovunque, le strutture territoriali di partito (sezioni, circoli, organi
provinciali) si sono assottigliate fino a rimanere poco più che un’insegna,
mentre sono cresciuti gli staff e il rilievo dei dirigenti, anche quando si
tratta di dirigenti legittimati da poche decine di migliaia di tessere, e da un
numero molto inferiore di tesserati. I dirigenti di partito continuano del resto
a controllare la selezione delle candidature per gli organi rappresentativi
(consigli e parlamenti), la formazione dei governi, l’esercizio dei relativi
poteri e l’allocazione delle risorse che a cascata il governo, ai vari livelli,
consente di controllare: una situazione ulteriormente aggravata dalla nuova
sciagurata legge elettorale appena approvata alla Camera che mette nelle sole
mani dei dirigenti di partito la compilazione degli «elenchi dei parlamentari».
I partiti sono insomma ancora oggi strumenti centrali della democrazia, ma la
loro democrazia interna va indebolendosi. Chi li guida continua ad avere
responsabilità determinanti, ma soffre di deficit evidenti di legittimazione e
di controllo.

D’altro canto, sarebbe del tutto sbagliato pensare che l’associazione
politica nata il 16 ottobre sia nata contro i partiti. Le righe dello statuto
che abbiamo citato dicono esattamente il contrario. L’associazione e i partiti
sono parte di un disegno comune. Le primarie sono state fatte anche grazie al
radicamento organizzativo dei partiti come oggi li conosciamo. Sono stati
proprio i dirigenti degli attuali partiti, infine, a riconoscere «sovranità» al
popolo delle primarie. L’inversione di rotta impressa alla linea politica della
Margherita è la migliore testimonianza di tale riconoscimento. Non sfugge a
nessuno con quanta determinazione sia stata affermata, nei mesi scorsi, la
necessità di tenere distinte le forze politiche del centrosinistra, e a nessuno
sfugge con quanta fermezza siano stati presi solenni impegni per escludere la
presentazione di liste unitarie dell’Ulivo alle elezioni politiche del 2006. I
dirigenti della Margherita e dei Ds, dichiarando ora di volere andare ben oltre
la presentazione di una lista unitaria, danno la migliore dimostrazione che il
popolo delle primarie è già portatore di una sovranità che va oltre la pur
importante scelta del leader. Si tratterà semmai di non frustrare nuovamente le
attese, con false partenze, esagerate richieste tattiche, successivi rinvii e
retromarcia finali.

Verso il Partito dei democratici. Le prossime tappe

Pur avendo ben chiara la meta, occorre essere consapevoli delle oggettive
difficoltà del percorso. Non ci si può nascondere che fino ad ora il dibattito
intorno alle condizioni e alle forme del Partito dei democratici ha avuto un
carattere astratto e occasionale. E non ci si può nascondere che invece non sarà
facile superare le resistenze e gli ostacoli che inevitabilmente si frappongono
al perseguimento di un obiettivo così ambizioso: il più ambizioso tentativo di
innovazione politica della storia repubblicana. Si tratta di una impresa per la
quale non è improprio ricorrere alla metafora e ad alcune specifiche lezioni che
possiamo trarre dalla costruzione dell’Unione Europea. Come in quel caso
dobbiamo trovare il modo per far convivere, almeno in una fase transitoria,
identità differenti in una casa comune, dobbiamo stabilire regole decisionali
che rassicurino chi è ancora geloso delle sue differenze senza inibire la
possibilità di darsi strutture e strategie unitarie, dobbiamo trovare i
meccanismi virtuosi che, a cascata, rendano più facile e in un certo senso, nel
medio termine inevitabile lo svolgersi del processo di integrazione.

Nessuno può avere la presunzione di dettare condizioni su quali siano i
prossimi passi da compiere per andare nella direzione auspicata. È però venuto
il momento di cominciare a riflettere, in concreto, su quali debbano essere le
prossime tappe del percorso. Per rendere la discussione il più possibile
concreta, ci limitiamo ad indicare alcuni problemi cruciali da affrontare.
Proviamo anche ad identificare, a titolo esemplificativo, alcune possibili
soluzioni. In questa fase siamo tuttavia più interessati a proporre una agenda
per la discussione che ad avanzare proposte puntuali.

Assumiamo innanzitutto che il Partito dei democratici dovrà essere un
partito a struttura federale, oltre che essere un partito federativo. Deve
trattarsi di un partito che garantisce la massima espressione delle differenze,
sia sul piano territoriale sia sul piano culturale, ma che sia al tempo stesso
in grado di proporre ai cittadini una sintesi coerente quando opera dentro le
istituzioni.

Liste comuni da subito in tutte le elezioni per organi assembleari. A noi
pare che la prima condizione per favorire la progressiva integrazione
«sovra-partitica» consista nell’escludere, da subito, una competizione
elettorale diretta tra le diverse componenti dell’Ulivo. Se la lista unitaria
dell’Ulivo per le prossime elezioni politiche vuole davvero essere il primo
passo verso il Partito dei democratici non ci sono ragioni per cui la si debba
presentare solo in una delle due Camere. Non ci sono ragioni pratiche per farlo.
Il sistema elettorale, prevedendo che i seggi al Senato si distribuiscano su
base regionale, offre invece un marginale ma significativo vantaggio alle liste
più grandi. Due liste separate rischiano di vedere sistematicamente sprecati i
di voti che eccedono il raggiungimento di uno o più quozienti pieni (i
cosiddetti resti). D’altro canto, varie prove elettorali, dalle Europee alle
Regionali, hanno dimostrato che Margherita e Ds, quando si presentano separati,
non raccolgono, nell’insieme del territorio nazionale, più voti di quanti ne
raccolgano presentandosi sotto il simbolo comune dell’Ulivo. Se dovesse essere
approvata la legge elettorale all’esame del Parlamento, la divisione in più
liste non sarebbe neppure giustificabile con l’argomento secondo cui più
candidati portano più voti, data l’impossibilità di esprimere il voto di
preferenza.

Selezione attraverso elezioni primarie di tutti i candidati comuni alle
cariche monocratiche di governo. Il codice genetico dell’Ulivo ci pare imponga
che, tendenzialmente, la selezione dei candidati comuni alle cariche
monocratiche di governo passi, a tutti i livelli (primo ministro, presidenti di
regione e provincia, sindaci), attraverso elezioni primarie identiche, per
modalità di svolgimento, a quelle tenute il 16 ottobre 2005. È il modo migliore
per affermare l’autonomia e la specificità delle diverse componenti
territoriali, per promuovere un rimescolamento delle vecchie identità, per non
disperdere il grande patrimonio di partecipazione e di unità che abbiamo tutti
visto in moto il 16 ottobre. Senza dimenticare che quel patrimonio di
partecipazione e di unità non può essere rivendicato come una dote dell’Ulivo, o
meglio dell’Ulivo soltanto, in quanto si tratta di un patrimonio dell’Unione di
centrosinistra nel suo insieme.

Gruppi parlamentari unitari. La sede nella quale l’unità dell’Ulivo deve
essere messa immediatamente alla prova è il Parlamento, così come, più in
generale, in tutti gli organi rappresentativi a carattere assembleare (consigli
comunali, provinciali, regionali). Non avrebbe alcun senso presentare liste
unitarie per poi dividersi all’indomani delle elezioni. La formazione di gruppi
unitari (uno alla Camera e uno al Senato) consentirebbe anche di sperimentare e
mettere a punto regole decisionali adeguate alla realtà (per ora) confederativa
dell’Ulivo. I regolamenti parlamentari possono fornire varie alternative dal
punto di vista organizzativo. Ma è necessario definire sin da subito alcuni
elementi di fondo. Sia il gruppo unitario della Camera sia quello del Senato
dovrebbe avere naturalmente un capogruppo unico. Laddove si intende che
verosimilmente ciascuna delle due attuali partiti esprimerebbe uno dei due
capigruppo. L’esistenza di un capogruppo unico, non espresso a rotazione, può
essere bilanciato da un ampio comitato direttivo, rappresentativo delle varie
componenti, laddove queste ultime potrebbero non essere (ed è anzi auspicabile
che non siano) espressione delle attuali «correnti» di partito, poiché rotte le
vecchie appartenenze potrebbero nascere nuove affinità elettive. Il gruppo
sarebbe quindi sia una somma di componenti, non necessariamente riferite agli
attuali partiti, sia una somma di singoli parlamentari. Occorrerebbe comunque
prevedere la possibilità di «adesioni dirette» per parlamentari che non
intendono avere una specifica appartenenza, a cominciare verosimilmente dal
Premier. Delle componenti occorrerà tener conto, ma in una misura contenuta,
anche per costituire in proporzione ad esse gli organi rappresentativi, oltre
che per la gestione delle risorse. La gran parte di queste ultime dovrebbe
essere tuttavia destinata a servizi collettivi del gruppo. Tutte le decisioni
più rilevanti sull’attività legislativa dovrebbero essere prese, secondo un
canone sperimentato al livello comunitario, a doppia maggioranza (una
maggioranza dei componenti che consista anche in una maggioranza delle
componenti), sia all’interno del Comitato direttivo sia all’interno
dell’Assemblea del gruppo. Almeno in una fase transitoria, è facile immaginare
che le diverse componenti culturali che lo formeranno (le quali potrebbero non
coincidere con gli attuali partiti) dovranno avere la possibilità di essere
distintamente rappresentate, tanto all’interno degli organi del partito quanto
all’interno delle istituzioni rappresentative (gruppi parlamentari e
consiliari).

Incompatibilità tra cariche di governo e cariche parlamentari. Se la legge
elettorale all’esame del parlamento dovesse essere approvata ed entrare in
vigore, la possibile maggioranza parlamentare dell’Unione sarà comunque molto
risicata in termini quantitativi. Disporre di un gruppo unitario nell’una e
nell’altra Camera tra le forze quantitativamente più rilevanti e politicamente
più omogenee è quindi una necessità prima ancora che una scelta. Alla Camera la
maggioranza sarà di 340 seggi più quelli conquistati tra i 12 riservati alla
circoscrizione estero. Una trentina, quindi, sopra la soglia di 316. Ancora più
delicata la situazione al Senato dove non dovrebbe essere superiore alle 10
unità. Questa circostanza renderà necessaria una innovazione comunque utile a
favorire un più efficace esercizio delle funzioni parlamentari e di governo.
Sarà infatti necessario ricorrere a nomine di vice-ministri e sottosegretari non
parlamentari e anche richiedere le dimissioni da deputato e da senatore di
coloro che accetteranno tali cariche, altrimenti le sconfitte nei voti
parlamentari saranno fisiologiche. Le dimissioni sarebbero facilmente gestibili
in quanto non provocherebbero più il ricorso a elezioni suppletive, ma solo il
subentro dei primi dei non eletti. L’Ulivo dovrebbe a nostro avviso
«approfittare di questo vincolo» per identificare una quota di sottosegretari e
vice-ministri tra personalità dotate di elevata reputazione tecnica che non
siano necessariamente espressione di uno degli attuali partiti ma che si
riconoscano nel progetto del Partito dei democratici.

Falsi problemi e nodi da sciogliere
Nei paragrafi precedenti, lo ripetiamo, abbiamo voluto solo mettere in
evidenza alcuni aspetti con cui, fin dai prossimi mesi, non potrà non
confrontarsi chiunque voglia prendere sul serio l’avvio del percorso che porta
alla costruzione del Partito dei democratici. Il dibattito che speriamo segua a
questo documento ci consentirà di essere più puntuali, di mettere a fuoco altre
priorità e altri problemi che oggi forse sottovalutiamo. I punti che abbiamo
toccato non hanno del resto, ovviamente, la pretesa d’essere esaustivi. Ci sono
ad esempio alcuni piccoli ma importanti segnali che potrebbero essere dati da
subito dagli attuali partiti dell’Ulivo, come quella di rilasciare ai propri
iscritti tessere a doppia faccia, che segnalino come l’adesione ai DS o a DL sia
già oggi, al tempo stesso, una adesione al Partito dei democratici che verrà.
Così come si potrebbe pensare ad organi di stampa ed altre iniziative culturali
comuni. Alcune convinzioni possiamo proporle però con assoluta determinazione.
In primo luogo, qualsiasi pur embrionale forma organizzativa del Partito dei
democratici, come potrebbe essere ad esempio la convocazione di assemblee
promotrici al livello locale, o la scelta di portavoci cittadini o provinciali,
deve sin dall’inizio passare attraverso il riconoscimento della piena
cittadinanza, all’interno del nuovo partito, del popolo delle primarie. Chiunque
abbia aderito alla Primaria 2005 ha titolo, al pari degli iscritti ai partiti
che gli daranno vita, a essere parte attiva nella processo della sua costruzione
e nella sua vita interna. In secondo luogo, tutti gli organi, pur embrionali,
del nuovo soggetto, dovranno essere pienamente espressione di questa nuova
membership. Non potranno essere quindi la sommatoria, nella forma di una
diarchia, delle strutture di partito esistenti.

La «cosa» evocata dall’Ulivo, quella che oggi chiamiamo Partito dei
democratici, la meta finale del cammino iniziato nuovamente dopo il 16 ottobre,
è necessaria e ambiziosa. Si tratta di una cosa radicalmente diversa dai
tentativi di includere alcune minoranze all’interno dal partito della sinistra
un tempo legato alla tradizione comunista e oggi legato alla tradizione
socialdemocratica. L’unico soggetto unitario possibile è un soggetto
completamente nuovo. Solo la scomposizione delle due maggiori organizzazioni
politiche oggi presenti nel centrosinistra potrà portare alla ricomposizione di
un autentico soggetto politico unitario all’altezza delle aspettative dei nostri
elettori e del Paese.

Il nodo centrale da sciogliere non consiste, in ogni caso, nel far entrare
la Margherita nel Partito dei socialisti europei (Pse), né tanto meno nel far
entrare i Ds nel Partito democratico europeo (Edp). Basterà ricordare che in
vari casi le diverse componenti interne di alcuni importanti partiti nazionali,
in Italia e altrove, hanno continuato ad appartenere per parecchio tempo a
gruppi e partiti europei distinti. Su questo piano, la costituzione in Italia
del Partito dei democratici, rappresenterebbe un fatto talmente nuovo e
importante da mettere in discussione quelle stesse etichette già oggi fragili e
indistinte.

Il vero nodo da sciogliere riguarda il superamento, reciproco e simultaneo,
della logica delle appartenenze, che è guidata sempre più spesso,
esclusivamente, dagli interessi consolidati delle rispettive dirigenze di
partito, dalla loro convenienza a ottenere ciascuna la propria porzione di
risorse e potere. Fin quando questa sindrome non verrà interrotta, con decisioni
conseguenti in merito alla selezione delle candidature, alla scelta dei
componenti del governo, all’organizzazione dei gruppi parlamentari, alla
ripartizione dei rimborsi elettorali, ai rapporti consolidati con specifici
gruppi di interesse e strutture economico-sociali, ogni proclama unitario è
destinato a essere confutato dai fatti.

I leader del centrosinistra che vogliano prendere sul serio l’opportunità e
la sfida di fare dell’Ulivo il Partito dei democratici devono gettare il cuore
oltre l’ostacolo delle convenienze di breve termine delle loro burocrazie, in
nome di un progetto del quale nessuno, se non gli elettori in fila davanti ai
gazebo delle primarie, può vantare la primogenitura.

La difesa delle storie e delle identità di ciascuno è iscritta nei
cromosomi dell’Ulivo. Ma questa difesa deve oggi fondersi armonicamente col
bisogno di una nuova e più alta identità comune: la stessa che fisicamente è
venuta dalle compostissime file di elettori che il 16 ottobre si sono trovati
tutti insieme, senza chiedersi l’un l’altro da dove ciascuno venisse ma felici
di sapere che tutti insieme andavano nella stessa direzione.