24 Novembre 2005
L’Ulivo fra le tessere e il nuovo partito
Autore: Paolo Franchi
Fonte: Corriere della Sera
Qualche giorno fa, sulla Stampa, Fabio Martini raccontava della (legittima) esultanza di diversi esponenti della Margherita di fronte alle prime notizie ufficiose che parlano di un forte incremento degli iscritti al partito.
Adesso a esultare (altrettanto legittimamente) per gli oltre seicentomila iscritti ai Ds è Piero Fassino, che annota come la Quercia, quanto a forza organizzata, sia seconda, in Europa, solo alla socialdemocrazia tedesca.
Una pura coincidenza, ci mancherebbe. E però tanta soddisfazione colpisce lo stesso. Quasi quanto le aspre contese siciliane sul candidato alla presidenza della Regione, le polemiche innestate dalle periodiche sortite di Arturo Parisi, la guerra dei tesorieri.
Perché il tesseramento, come si diceva una volta, quando proprio all’inizio di novembre il Pci gli dedicava le fatidiche «dieci giornate», è sempre stato una cosa importante, anzi, un elemento costitutivo per ogni partito che si rispetti.
E lo è tuttora, anche se sarebbe di grande interesse verificare, partito per partito, regione per regione, come funziona davvero.
Può darsi, anzi, è assai probabile che Fassino esageri un po’, proprio come alcuni dirigenti della Margherita, quando parla di «una forte propensione ad aderire alle organizzazioni politiche»: in giro non si avvertono, a dire il vero, segnali particolarmente vistosi in tal senso.
Ma, almeno in via di principio, è certo che l’iscrizione a un partito è qualcosa di più dell’adesione a un programma.
È pure, o dovrebbe essere, la testimonianza di un impegno personale a fare la propria parte per rafforzare e rendere più nitidi il ruolo e il profilo, in una parola l’identità, del partito in questione.
Il problema, però, comincia esattamente qui. Per il semplice motivo che tra le questioni più controverse c’è proprio l’identità della Quercia e della Margherita: a quale forza politica ci si iscrive, preferenze floreali a parte?
A nessuno è chiaro, infatti, se si tratti di due partiti per così dire a termine, destinati sin dalla prossima legislatura a programmare la propria estinzione, in vista della costruzione di un nuovo e più ampio soggetto politico, il «partito democratico» o qualcosa di simile.
O se invece Ds e Margherita, lungi dall’avere il proprio avvenire dietro le spalle, siano due partiti destinati a durare nel tempo: una sinistra riformista (se è peccato parlare di un partito socialista) e un centro moderatamente riformatore chiamati a collaborare, sì, ma pure a competere.
Così come si conviene ai due principali partner di una coalizione (il famoso centro-sinistra con il trattino). E in fondo così come è già stato una quarantina di anni fa, e poi ancora negli anni Ottanta, seppure con rapporti di forza assai diversi, tra Dc e Psi.
Formalmente la prima ipotesi, specie dopo la grande partecipazione alle primarie e il trionfo di Romano Prodi, è la più gettonata. Ma, appunto, formalmente.
Perché ci sono stati sì appelli e interviste, ma tutti o quasi i comportamenti concreti (compreso l’entusiasmo per i successi nei rispettivi tesseramenti) sembrano andare in direzione opposta.
Come se, a parte Romano Prodi e il suo drappello che comprensibilmente ne hanno tutto l’interesse, l’idea di terremotare la geografia politica del centrosinistra sembrasse a tutti, non solo ai presunti oligarchi, più un pericolo che una speranza.
Se davvero fosse così, niente di male: basterebbe trovare il coraggio di dirlo apertamente. Almanaccare quotidianamente su soggetti e progetti di fuoriuscita dal Novecento, dalle sue ideologie e dalle sue famiglie politiche così nebulosi da far pensare che non prenderanno mai corpo è peggio di una perdita di tempo.
Mai al mondo si è visto nascere così un partito, spesso, piuttosto, si sono visti partiti deperire. Anche quando, magari, incrementavano la propria forza organizzata.