La prospettazione del Partito democratico, di un Partito dei democratici
che organizzi il polo di centrosinistra nello schema bipolare non è certo una
novità di oggi.
Per fermarci anche solo agli ultimi quindici anni, da quando
cioè ha preso il via la lunga transizione politica italiana dopo il collasso del
sistema dei partiti del primo tempo della Repubblica, quel sogno, quel traguardo
è stato più volte evocato: penso alla Rete, ad Alleanza Democratica, ai
Democratici.
Nel 2002 nella rivista ItalianiEuropei si sviluppa un interessante
dibattito tra me, D’Alema e Amato sul ruolo del Partito Socialista Europeo. Loro
sostenevano la tesi dell’allargamento ad altre forze politiche. Io sostenevo il
superamento del Pse e la nascita di una nuova formazione europea in grado di
contenere tutte le nuove istanze riformatrici, nate dopo la caduta del muro di
Berlino, di un otre nuovo per un vino nuovo.
La novità è che quella prospettiva,
assunta ora formalmente dalla Margherita nella sua Assemblea Federale, non è più
concepita come un orizzonte lontano, proiettato in un futuro indefinito, ma come
un cantiere da aprire subito e al quale attendere sin dalla prossima
legislatura.
Tale decisione, che fa segnare una correzione di rotta dopo
l’accantonamento dell’Ulivo, è stata assunta in risposta a due eventi. Una sfida
negativa e cioè la nuova regola elettorale che annuncia frammentazione e
instabilità e alla quale si può reagire solo dando ad essa una risposta politica
alta e unitaria. Una risorsa positiva: il travolgente risultato delle primarie
nel quale si è manifestata l’esistenza di un popolo di cittadini attivi,
appassionati della cosa pubblica, né indifferenti né ostili ai partiti
tradizionali e tuttavia uniti solo dalla comune appartenenza e scelta per il
campo democratico, dall’interesse alla partecipazione, dalla preoccupazione per
l’unità dei democratici e dalla domanda di un governo alternativo, non di una
semplice alternanza.
Mi limito a fissare qualche elemento di un dibattito che si è appena
avviato. Intanto, finalmente si parla di un partito. Abbandoniamo le timidezze e
le ambiguità lessicali. Non più mera alleanza, non più federazione, non più
indistinta «cosa», non più generico «soggetto», ma appunto partito.
Il nome e il
segno dell’Ulivo riesce finalmente a declinarsi in una cosa compiuta. Se le
parole hanno un senso e nessuno coltiva la pretesa di sostenere… «il Partito
democratico sono io, gli altri si aggiungano», ciò sta a dire la determinazione
a fare insieme un partito per davvero nuovo e diverso rispetto agli attuali
partiti. Accedendo alla categoria dell’incontro tra soggetti oggi distinti e
delle culture democratiche e riformatrici cui finalmente dare una casa comune.
Che è con la disponibilità di tutti e di ciascuno rimettersi in discussione
attraverso un «nuovo inizio».
Solo merita aggiungere due
puntualizzazioni. Primo: la naturale base associativa, la risorsa cruciale del
Partito Democratico è rappresentata proprio dal popolo delle primarie che ha
sostenuto Prodi e perfino tra quanti pur non votandolo hanno contribuito a
sceglierlo. Esso si mostrava anche visivamente in quelle file ai seggi come un
popolo abbondantemente rimescolato, oltre che politicamente motivato e
partecipe. Molto più del ceto politico. Sta alle organizzazioni politiche
raccogliere e, certo, elaborare il sentire comune di quel popolo, sintonizzarsi
sulla sua unità piuttosto che infliggergli le proprie anacronistiche e spesso
artificiose divisioni. Seconda puntualizzazione: il Partito Democratico ha da
essere un partito italiano ed europeo, non la destra della sinistra, non un
semplice accordo tra i due principali partiti del centrosinistra, ma neppure la
sezione italiana del Partito Democratico americano. Semmai, della democrazia
americana, esso deve fare sua la lezione di Tocqueville, quella cioè di una
democrazia pluralistica e partecipativa, federalista e non centralista, immune
dal gene giacobino, massimalista e autoritario, che è il portato delle derive
involutive della rivoluzione francese. Anche perché non possiamo dimenticare che
il sogno americano è un sogno sognato in Europa.