A forza di discutere sulle differenze fra la corruzione di ieri e quella di oggi – fra l’operazione Mani Pulite dei primi Anni 90 e le indagini giudiziarie sulle scalate recenti di due banche italiane – c’è il rischio di dimenticare quel che accade davanti agli occhi sbigottiti degli italiani, non da oggi ma da decenni. L’essenza è il ripetersi di comportamenti che non sempre sono penalmente rilevanti ma sempre finiscono con l’essere scorretti, devianti da norme basilari del buon comportamento pubblico, non limpidi ma invece torbidi e praticati nelle segrete di chiusi clan di iniziati: è un ripetersi ossessivo, che magistratura e stampa non sembrano scalfire.
È come se esistesse una consorteria non visibile accanto al mondo visibile che tutti abitiamo, e chi fa parte della consorteria ha un modo esoterico di dire, di fare, di essere, di telefonarsi, di sopravvivere, di ritenersi non giudicabile, che solo gli affiliati conoscono, apprezzano e giustificano. La novità è che della consorteria fa parte una forza uscita indenne da Tangentopoli – il gruppo dirigente Ds – e che l’impulso ad affiliarsi pare aumentato anziché diminuito. Trionfanti, non pochi esponenti della destra dicono, ammettendo i propri vizi: “Non sono diversi!”.
Non mancano le diversità naturalmente: negli Anni 90 furono indagati politici che si erano arricchiti o avevano arricchito i propri partiti, oggi sono indagati banchieri che hanno potuto impunemente violare leggi civili e penali oltre che normali codici di correttezza grazie a cecità di controllori pubblici, silenzio di associazioni di categoria, amministratori d’impresa, banchieri italiani ed esteri. È su tutto questo che la politica è stata taciturna, se non connivente. Penalmente le diversità ci sono ma il linguaggio resta quello esoterico degli affiliati: affiliati che non tollerano incursioni di giornali o magistrati, e che oggi come ieri accusano gli uni e gli altri di persecuzioni e complotti.
Come nel film di Buñuel, c’è un Angelo Sterminatore che imprigiona la politica in una sorta di stanza inaccessibile, impedendole di uscire all’aperto e di metter fine a un malcostume che non è solo economico ma è un disfarsi progressivo delle menti e del modo di vedere la realtà. Per questo è così importante andare all’essenza delle cose, riconoscere quel che perpetua la cattività, e passare dal linguaggio familistico-misterico a quello meno opaco della democrazia.
Quel che dà tanta forza all’Angelo Sterminatore – l’essenza del male italiano – è la commistione fra politica e affari, fra pòlis e economia: una promiscuità che mentalmente corrompe la prima, rendendola sempre più sospetta al cittadino; che corrompe la seconda, impedendole di divenire competitiva nel mondo contando sulle proprie forze anziché su appoggi politici. La questione apparve evidente nel ’92-’93 ma la risposta che venne data non intaccò la straordinaria energia del male e il risultato fu che esso rimase dov’era, mettendo radici nel momento stesso in cui dava l’impressione di mutar volto.
Fu allora che comparve Berlusconi: simbolo non di una rigenerazione ma di una prassi che permaneva intatta, pur cambiando i modi di comunicare e imporsi. Con Berlusconi l’intreccio politica-economia diventa regola e si banalizza del tutto: il suo ingresso in politica e il suo modo di farla sono stati, nell’ultimo decennio, all’insegna di quel perfetto esempio di commistione che si chiama conflitto d’interessi. Il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica è stato da questo punto di vista una finzione, anche se ha prodotto il benefico frutto del bipolarismo, e la vera alternanza – quella che s’incarna in alternative oltre che in cambi di governo – ancora deve venire in Italia.
Non sparirà in nessuno schieramento il malcostume, la storia non è un giudizio universale, ma importanti passi avanti potranno esser fatti e molto dipende oggi anche dai Ds. L’alternativa consiste nell’introdurre nei rapporti fra politica ed economia quella laicità che in passato suggellò la separazione fra politica e religione. Chi continua a gridare al complotto – oggi nei Ds, ieri in Forza Italia – lavora per restare nella stanza chiusa, per non volere l’alternativa e magari neppure l’alternanza.
È significativo che i Ds reagiscano così, alla vecchia maniera leninista, mostrando che per loro il partito tende spesso a contare assai più del governo e del governare. I loro dirigenti discendono da un partito che fu confessionale: nei tempi torbidi è innanzitutto la chiesa che va salvaguardata, e il suo divino diritto alla superiorità morale. I militanti puri e duri non ci abbandoneranno, sembra dire parte del gruppo dirigente, senza accorgersi che l’Unione intera può esser travolta, a cento giorni da un appuntamento che ancor ieri sembrava promettere la vittoria.
Ora la terra trema sotto i suoi piedi, perché sull’essenza si è deciso di tacere per oltre un decennio. Non si è voluto eliminare il conflitto d’interessi – negli anni in cui governarono Prodi, D’Alema, Amato, come nei negoziati della Bicamerale -, non si è voluto analizzare il fenomeno Berlusconi, non si son volute introdurre o pensare regole perché la laica separazione divenisse in futuro possibile. Il risultato è quello descritto da Prodi suLa Stampa, il 4 gennaio: «Una vicinanza tra politica e centrali economiche che, in taluni casi, ha debordato oltre i confini: non oltre i confini del lecito dal punto di vista giuridico, ma oltre i confini dell’opportunità politica».
Una «politica troppo promiscua al mondo degli affari e degli interessi», che ha finito con l’accentuare «quella sotterranea deriva qualunquista secondo la quale la politica è una cosa sporca, i politici sono tutti uguali». Un chiudersi dei Ds, oggi, nel «bunker del fumus persecutionis». Nel bunker gli affiliati meditano la rovina altrui ma rischiano di perire per primi: a meno che – fin dalla prossima direzione Ds, l’11 gennaio – non prevalga la realistica consapevolezza del pericolo che anima uomini come Napolitano e tormenta forse anche Fassino.
Chi è nel bunker non vede la via d’uscita, e forse neppure la vuole. Pensa che il male sia il presente governo, e non l’avversione a un rapporto finalmente laico tra economia e politica: avversione che Berlusconi ha esasperato, ha imposto alla sua coalizione, ha iniettato nel tessuto stesso di parte dell’opposizione. Chi è nel bunker non si accorge che accanto ai puri e duri c’è – convitato di pietra, segreto complice – il fantasma del presidente del Consiglio. Possiamo leggere quanto accade alla luce dell’appello che Bondi, coordinatore di Forza Italia, ha lanciato giorni fa ai Ds: «Fermiamo assieme i poteri forti», ha detto in sostanza, denunciando un assedio congiunto di poteri editoriali, economici e giudiziari.
Il conflitto d’interessi è da oltre dieci anni un non-detto italiano, più ancora che in passato, e rischia di continuare a esserlo. È la nostra normale a-normalità, la nostra mancanza di norme che servano da filtri preventivi prima ancora che la legge venga violata. Il conflitto d’interessi è al servizio delle esigenze particolari, porta a trascurare l’esigenza generale, e tutte le alte cariche dello Stato corrono il pericolo di riprodurlo ai propri vertici, se una chiara disciplina non separerà gli interessi generali della politica e delle istituzioni pubbliche dagli interessi particolari di chi opera nell’economia.
Si dirà che una laica separazione fra politica ed economia è un miraggio, ma abbiamo visto quanto disastrosa sia la strage delle illusioni. Una parte notevole dei Ds è fatta di disillusi e smagati che hanno dato a industriali senza scrupoli il nome di capitani coraggiosi. Il disincanto etico ha spinto D’Alema a chiedere, il 5 agosto in un’intervista al Sole-24 Ore: «Che cos’ha che non va Gnutti?» (lo stesso Gnutti condannato dal tribunale di Brescia per insider trading, fin dal 2002). Una sorta di inebetita ignoranza ha spinto Fassino a parlare con Consorte di «nostra banca» a proposito di Bnl.
E tutto questo, quando le cose erano da tempo sotto gli occhi di chiunque volesse vedere: l’articolo di Ferruccio de Bortoli, direttore del Sole, sulla sinistra e i suoi pericolosi «compagni di viaggio nell’economia e nella finanza» risale al 15 aprile 2005. I disillusi sono numerosi nella generazione del Sessantotto, somigliano a tanti piccoli Schröder, condividono il giudizio sprezzante che molti falsi riformisti danno della questione etica. Le voci critiche son chiamate moraliste invece che morali. Le indagini di Travaglio su politica e malaffare «fanno venire l’orticaria» a Bertinotti, e il Corriere della Sera è accusato di perbenismo ipocrita: visto che nessuno ha le mani pulite – poteri forti e non – perché accanirsi su uno solo?
Si vedrà nel prossimo aprile l’effetto che questo linguaggio avrà sul voto, ma già oggi il 20 per cento degli elettori a sinistra è influenzato da Bancopoli. Se i Ds non fanno chiarezza su se stessi e non prendono decisioni chiare su come intendono governare, potranno difficilmente parlare dell’essenziale: di Berlusconi, del conflitto d’interessi, dell’apertura stessa delle banche all’Europa e di come quest’apertura debba migliorare gli istituti di credito e non semplicemente svenderli. Se non potranno parlare di Berlusconi non potranno neppure evitare la più stupefacente ironia: che questi usi la questione morale come suo improvviso asso nella manica. Non potranno né vincere questo governo, né migliorare l’economia, né dare inizio in Italia a un’alternanza che somigli a un’alternativa.