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19 Maggio 2005

L’ombra lunga della Quercia

Autore: Paolo Franchi
Fonte: Corriere della Sera

Non erano ancora noti i primi risultati delle elezioni catanesi, e già Romano Prodi decideva di accelerare, annunciando che avrebbe chiesto tra pochi giorni ai riformisti dell’Ulivo di presentarsi uniti in un’unica lista alle elezioni politiche della primavera dell’anno prossimo. Giusto, anzi, giustissimo: e non solo perché così si comportano i leader, quando è il momento di rompere gli indugi. Quasi per forza di cose, più va avanti in uno dei due schieramenti il processo di unificazione anche elettorale delle forze politicamente omogenee, più qualcosa di analogo matura e prende corpo nel campo avverso. E a guadagnarne, in prospettiva, è la stabilità del sistema, perché solo per questa via il nostro bipolarismo ( da sempre balbettante, e da tempo esposto al rischio di regressione e di crisi) può, come suol dirsi, andare a regime: mettendo in condizione di non nuocere, o di nuocere meno, i fautori dichiarati e coperti del ritorno al passato.

Dare vita a una forza che sia qualcosa di più e di diverso della somma dei partiti che contraggono il patto è un’impresa complicata in generale, perché i soggetti politici non nascono per decreto. E diventa complicatissima nel nostro caso. Perché già in partenza c’è un problema difficile da risolvere e ancor più da aggirare. L’idea di un listone dei riformisti ( e a maggior ragione, si capisce, quella di un partito unico) non piace affatto a Francesco Rutelli e alla maggioranza della Margherita, a cominciare dagli ex dc, che la contrastano per due motivi soprattutto. Il primo: mantenendo la propria autonomia e il proprio simbolo nella quota proporzionale, la Margherita, sostengono, è in grado di intercettare molti più voti in uscita dal centrodestra di quanto possa farlo una lista in comune. Il secondo: in un listone siffatto, e infinitamente di più, domani, in un eventuale partito unico, i moderati del centrosinistra rischiano di essere ridimensionati ( ma l’espressione in voga è: cannibalizzati), nonostante Prodi, dai Ds ( ma il termine più utilizzato è: dai comunisti).

Queste preoccupazioni sono probabilmente eccessive, e magari anche un po’ strumentali. Ma i fautori della lista unica o ne prendono atto e rinunciano, almeno per ora, o devono provarsi a dare una risposta convincente. Piero Fassino ha scelto, in un’intervista che ha provocato molte polemiche, una terza via. Perché ha insistito giustamente, sul fatto che, per gli elettori, l’unità costituisce ormai un valore in sé. Ma ha anche aggiunto che si tratta di un valore così importante da meritare di essere perseguito comunque. Subito. Con chi ci sta. Non sono disponibili Rutelli e la maggioranza del suo partito? Avanti gli altri, e senza farne un dramma.

I centristi del centrosinistra hanno considerato queste parole un diktat , e se la sono presa assai. Esagerano, Fassino è animato dalle migliori intenzioni unitarie. Ma restano parecchie domande. Chi sarebbero gli « altri » , pronti a far lista comune con i Ds: lo Sdi, i repubblicani europei, i prodiani? E Fassino è sicuro della loro disponibilità? E che Federazione verrebbe fuori da queste ( eventuali) adesioni? Per il momento, non è chiaro neanche dove starebbe di casa. Una curiosità: qualche giorno fa, lo stesso giornale ( Repubblica ), dove è comparsa ieri l’intervista di Fassino, ha pubblicato la notizia ( non smentita) che i Ds vorrebbero tornare, dopo un breve e doloroso esilio, a Botteghe Oscure. Tra i problemi politici della Federazione e quelli, diciamo così, logistico simbolici dei Ds non c’è, si capisce, alcun nesso diretto. Ma è difficile immaginare che Enrico Boselli, e domani Rutelli e Ciriaco De Mita possano essere entusiasti di alloggiare anche metaforicamente al Bottegone. Non c’è dubbio, il percorso verso un nuovo soggetto riformista è lungo e tortuoso.

Le parole di Fassino non sembrano averlo reso più breve. O più lineare.