27 Giugno 2005
Lo strano leader di un’Europa ammaccata
Autore: Eugenio Scalfari
Fonte: la Repubblica
A proposito dello scontro tra Blair e Chirac sul bilancio europeo e del
discorso programmatico del premier britannico dinanzi al Parlamento di
Strasburgo alcuni commentatori inglesi e italiani hanno ricordato la battaglia
di Waterloo. Chi in quella circostanza puntò sulla vittoria del duca di
Wellington quale campione di una nuova Europa ebbe ragione – dicono quei
commentatori; chi invece credette ancora al sogno napoleonico ebbe
torto.
Così, raccomandano i fautori dell’esempio di Waterloo, chi ha oggi a cuore
il destino dell’Europa punti su Blair e non lo lasci isolato in compagnia
soltanto di Bush, di Angela Merkel e di Sarkozy, probabili successori a breve
scadenza di Schroeder e di Chirac.
Faccio osservare ai tifosi del duca di Wellington che il suo governo, dopo
la vittoria di Waterloo, fu uno dei peggiori del Regno Unito. Quanto all’Europa
nata da quella vittoria, essa rimise in auge le vecchie monarchie strette
insieme nella Santa Alleanza e ripristinò un sistema reazionario nel nostro
Continente che non può certo essere un punto di riferimento per i riformisti di
oggi.
Quanto alla solitudine di Blair che, poveretto, ha per soli compagni
l’amico George Bush e i probabili leader di Francia e di Germania, non mi sembra
la sua una condizione così penosa e non risulta infatti che il premier
britannico se ne lamenti.
Come tutti i seduttori e i grandi comunicatori (e Blair lo è) egli vuole
piacere anche a quanti gli sono ancora ostili. Vuole conquistare gli
europei-europeisti. Da questo punto di vista il suo discorso al Parlamento di
Strasburgo è stato un piccolo capolavoro. L’esordio in particolare, quando ha
detto, rafforzando la voce e dandole un tono appassionato come fa nelle grandi
occasioni: “Io credo nell’Europa come soggetto politico. Credo in un’Europa che
abbia una dimensione sociale forte e presente. Non accetterò mai un’Europa
ridotta a puro mercato comune”.
I giornali hanno giustamente titolato su queste parole; dette da Blair sono
una notizia, come quella dell’uomo che morde il cane. Ma è una notizia fondata?
Per quanto riguarda il passato non direi. La Gran Bretagna è fuori dal sistema
della moneta comune europea per sua volontà e fuori resterà chissà fino a
quando. È stata la più tenace avversaria dell’armonizzazione delle politiche
fiscali tra i paesi dell’Unione, senza la quale parlare di riforme su scala
europea è vuota retorica.
In politica estera è ancora questione attuale la guerra e il dopo-guerra
iracheno, lo strappo nei confronti dell’Onu e dell’Europa, le false motivazioni
date a quel conflitto che produce ancora lutti e rovine come prima anzi peggio
di prima.
Nei lunghi mesi nei quali Giscard d’Estaing e Giuliano Amato prepararono la
Carta che è servita di base alla Costituzione europea sconfitta dai referendum
di Francia e d’Olanda, fu proprio dal governo di Londra che vennero i “no” più
recisi a estendere il metodo delle decisioni prese a maggioranza nel Consiglio
dei ministri dell’Unione e ad indebolire i poteri e l’autonomia del presidente e
del ministro degli Esteri dell’Unione, uniche novità di sostanza di quella
sfortunata Costituzione.
Questo è stato il passato prossimo di Tony Blair. Scopriamo oggi che la sua
fede nell’Europa come progetto politico rappresenta uno dei suoi ideali di
fondo. Ripeto: è una notizia, anzi un fior di notizia. Crediamogli dunque sulla
parola e andiamo a esaminare la parte sostanziale del suo programma esposto
l’altro ieri a Strasburgo.
* * *
Le riforme proposte dal premier britannico sono state da lui introdotte da
una premessa e da una critica. La premessa: “Non esiste alcuna divisione tra
l’Europa capace di successi economici e l’Europa sociale. Il fine dell’Europa
sociale e quello dell’Europa economica dovrebbero sostenersi reciprocamente. Lo
scopo dell’Europa politica dovrebbe esser quello di promuovere istituzioni
democratiche capaci di far progredire la politica in entrambe le sfere,
economica e sociale”. Giusto e anche ovvio. Proprio contro quella ovvietà la
Gran Bretagna ha opposto finora la più caparbia resistenza.
La critica invece è interamente condivisibile: “Qualcuno suppone che io
voglia abbandonare il modello sociale europeo. Ma ditemi: di quale genere è quel
modello sociale che mantiene venti milioni di disoccupati in Europa? Che produce
meno laureati in materie scientifiche dell’India? Che regredisce in tutti gli
indicatori della moderna economia – competitività, ricerca, brevetti, alta
tecnologia? Delle venti migliori università del mondo, oggi solo due sono in
Europa. Il fine del nostro modello sociale dovrebbe essere quello di aumentare
la competitività, affrontare la globalizzazione ed evitarne i pericoli. Di certo
abbiamo bisogno di un’Europa sociale. Deve essere però un’Europa sociale che
lavori. Chiudendosi a riccio di fronte a questa immensa sfida nella speranza di
poter evitare la globalizzazione, le Nazioni europee si sottraggono alle
trasformazioni, si rifugiano nelle politiche attualmente vigenti in Europa, ma
così facendo rischiano il fallimento. Fallimento su una scala gigantesca e
strategica. È il momento di riconoscere che solo cambiando l’Europa essa
ritroverà i propri ideali, il proprio ruolo e il sostegno popolare”.
Questa critica secondo me è perfetta. Eloquente. Non c’è da cambiarle
neppure una virgola. Solo un’osservazione: forse Blair ha scambiato il
Parlamento di Strasburgo per l’aula di Westminster. Lì, in quell’antico e severo
palazzo in riva al Tamigi, al discorso della Corona pronunciato dalla Regina e
scritto dal premier, seguono le leggi, i decreti, gli atti dell’amministrazione
che producono riforme, spese, imposte, pubblici investimenti e insomma
governance. Ma a Strasburgo e cento chilometri più in là a Bruxelles non segue
niente o quasi niente. La Commissione veglia sul rispetto dei trattati e propone
ai governi dei paesi membri il varo di direttive riformatrici. I governi le
approvano se non intaccano i loro poteri.
Altrimenti quelle proposte rimangono nei cassetti e tutt’al più si
trasformano in raccomandazioni che valgono uno zero.
Ancora una volta osservo che la resistenza più tenace a impedire che
l’Europa abbia un governo vero ed efficace è venuta dalla Gran Bretagna e dalla
Francia gollista e colbertiana. Avversari in molte cose ma solidali in questa:
far sì che l’Europa non cresca mai a detrimento dei poteri dei governi
nazionali.
* * *
Vedremo comunque se Blair, illuminato e convertito sulla via di Strasburgo,
riuscirà a condurre l’Europa e i governi nazionali sulla strada da lui indicata
e in parte almeno sperimentata nel suo paese. Soprattutto vedremo se offrirà,
per percorrerla, la disponibilità del governo di Sua Maestà britannica, senza la
quale quella strada non è percorribile. Questa sì, sarebbe una rivoluzione. Ma
Blair non vuole una rivoluzione. Infatti ha fatto appello alle forze moderate.
L’intenzione è buona: i moderati per il riformismo, contro la destra populista e
il radicalismo massimalista.
Campi d’azione: pensioni, flessibilità del lavoro, ammortizzatori sociali,
competitività. E anche riforma del bilancio dell’Unione. Trasferire a carico dei
governi nazionali i sussidi agricoli e gli investimenti nelle regioni e nei
settori depressi. Lasciare a Bruxelles i fondi per la ricerca, per
l’innovazione, per gli investimenti europei e per i sostegni ai paesi membri
nelle materie di sviluppo ad essi delegate.
Tutto questo in sei mesi? Blair non chiede la luna. Vuole dare una scossa.
Tessere alleanze. Cercare un ruolo per il suo paese e per se stesso. Ha concluso
il suo discorso con la politica estera e lì non ci sono state sorprese:
scordiamoci il passato (iracheno) e lavoriamo insieme per il futuro. Poteva
concludere con il grido di Enrico V ad Azincourt: “Inghilterra e San
Giorgio”.
Forse ci ha pensato ma deve aver
concluso che non avrebbe funzionato: Azincourt, come Waterloo, non sono
memorie appropriate da rispolverare in salsa europeistica. La sola cosa
che sarebbe possibile ed utile fare durante il semestre di presidenza
britannica è ascoltare la società europea, le ragioni vere del suo
malcontento e del suo disincanto: disoccupazione, caduta del potere
d’acquisto, insicurezza economica, paura di un’incombente povertà.
Ascoltare il triste elenco di doglianze e proporre la terapia. Ma a
chi? Chi deve avere in Europa il compito del terapista? Blair dice che
ci vuole una leadership politica ed ha ragione, ma non vuole discutere
di istituzioni.
Detto così non significa niente. Chi governa l’Europa? In quale veste? Con
quali regole e poteri? Scelte da chi?
Lisbona, le riforme riproposte l’altro ieri dal premier inglese le aveva
già indicate tutte. Se non si è mosso un solo passo avanti una ragione ci sarà:
non si sapeva chi avrebbe dovuto farle, quelle riforme. E non si sa
tuttora.
Da questo punto di vista il programma di Blair è pura comunicazione. Di
questa noi italiani siamo molto esperti.
Abbiamo già dato. Grazie.
* * *
Dopo quattro anni di malgoverno, noi italiani continuiamo a essere un
popolo privilegiato in termini di pura comunicazione.
Ricordate il contratto con gli italiani stipulato dall’aspirante “premier”
con l’ausilio tecnico del notaio Bruno Vespa? Cinque clausole da rispettare
entro il 2006 e se ne mancavano due e ne fossero state realizzate solo tre,
definitivo ritiro dello stipulante dalla politica.
Cinque clausole: sicurezza privata contro il crimine, abbattimento della
pressione fiscale, opere pubbliche di grandi e di normali dimensioni (catalogate
una per una sulla carta geografica), disciplina dell’immigrazione, Mezzogiorno e
occupazione giovanile.
Il bilancio è sotto gli occhi di tutti. Il ministro Siniscalco l’altro
giorno, parlando ai commercianti in tumulto per il crollo dei consumi, ha
continuato la solfa che il presidente del suo governo ci propina in mezzo al
crescente disagio di chi è costretto ad ascoltarlo.
Siniscalco ha detto che la pressione fiscale è diminuita rispetto al
1997.
Chissà perché ha scelto il ’97 come punto di riferimento. Io lo so: il ’97
fu l’anno in cui Prodi e Ciampi misero in moto l’azione per agganciare
l’euro.
Imposero al paese sacrifici finalizzati a quell’obiettivo.
Lo dissero. Gli italiani accettarono e l’obiettivo fu raggiunto. Perché
Siniscalco non ha scelto il ’95 o il ’99 come riferimento o meglio ancora il
2001, anno di inizio del governo Berlusconi? Ma queste sono schermaglie e la
verità è che l’Italia di oggi sta molto peggio di quella di quattro anni fa e
starà ancora peggio tra qualche mese.
Non a caso, dopo aver suonato il tamburo sul taglio dell’Irap che avrebbe
dovuto esser fatto a dir poco da due anni, il provvedimento è stato rinviato al
2006 per assoluta mancanza di risorse.
Si stringano le spese correnti, si combatta l’evasione. Con questo governo?
Che fa l’elogio del sommerso? Che ha condonato in quattro anni tutto il
condonabile tranne l’aria che respiriamo? Ma siamo seri.
Fino a qualche mese fa le famiglie del ceto medio fino a 30mila euro di
reddito annuo, cioè la massa dei contribuenti, vedevano a rischio l’ultima
settimana del mese. Adesso il fiato diventa corto già dopo le prime due
settimane. I consumi ad aprile (ultimo dato disponibile) sono diminuiti del 3,9
per cento sull’anno precedente. Le esportazioni sono in rosso profondo, il
fabbisogno del Tesoro è in aumento. Dal rincaro degli interessi si salva l’euro
(per ora) ma la Lega vuole andarsene e invoca un referendum senza che nessuno le
ricordi che i referendum abrogativi sui trattati internazionali sono vietati
dalla Costituzione.
Liberalizzazioni, zero. Politica della concorrenza, zero.
L’Italia è un paese corporativo, tenuto in mano da arciconfraternite come
diceva Guido Carli. Berlusconi l’ha ricevuta così e così ce la restituisce
intatta anzi ancora di più nelle mani delle corporazioni.
Il nostro premier guarda con interesse alle “comunicazioni” di
Blair.
Come a quelle del cardinal Ruini. Il nuovo partito del quale cerca il nome
potrebbe anche chiamarlo Guelfo, con tante scuse ai guelfi di un tempo. Ma è un
nome troppo italiano e per l’Europa non va bene. Però quel progetto di Blair di
rinnovare l’Europa, cambiarla, svegliarla, proiettarla nella sfida globale
affidando compiti così immani ai governi nazionali e chiamando a raccolta i
moderati; quel progetto così affascinante, seduttivo, condiviso da tutti perché,
a parole almeno, tutti accontenta senza disturbare nessuno, per lui va
benissimo. Anzi: è il suo progetto. L’ha già sbozzato quattro anni fa,
ricordate? L’amico Tony lo fa suo nel 2005 il Cavaliere ce l’aveva ammannito nel
2001. Purtroppo non ha cambiato una virgola se non in peggio nella realtà
italiana, ed ora ha ceduto a Tony il copyright.
Dobbiamo avvertirlo, il leader del New Labour: stia attento, non ecceda in
promesse e speranze senza dire il dove il come e il quando. I precedenti – noi
possiamo testimoniarlo – non sono stati affatto buoni.
Post Scriptum. Nel frattempo c’è stata la visita di Benedetto XVI al
Quirinale e il tema dei discorsi del presidente della Repubblica e del Pontefice
non poteva che essere quello della laicità. Repubblica ne ha dato ieri ampio
resoconto di cronaca insieme ai commenti che la cronaca suggeriva.
Risulta evidente che il nuovo pontificato si è incamminato verso una
reviviscenza politica dell’azione ecclesiale, che interferisce e condiziona le
autorità civili invadendo campi delicatissimi. Si fronteggiano due visioni
profondamente distanti: quella dello Stato liberale e agnostico la cui funzione
è di garantire a tutti piena libertà di comportamento e pieno esercizio dei
diritti nell’ambito delle leggi, e quella d’una Chiesa che auspica e opera per
dare allo Stato un contenuto religioso attraverso leggi improntate alla morale
cattolica, vincolanti anche per chi abbia credenze e convinzioni diverse. Una
visione “guelfa” della politica, che sposta il baricentro della vita pubblica
italiana dal Quirinale a San Pietro, da Montecitorio al Laterano.
A questo punto non c’è più spazio per distinzioni e mediazioni. Prenda
ciascuno il posto che la coscienza gli suggerisce. Il nostro è chiaro: rispetto
verso tutte le confessioni religiose e garanzia del loro libero esercizio;
delimitazione netta delle rispettive autonomie tra il potere civile e quello
religioso; difesa intransigente dei diritti di libertà che vanno tutelati ed
estesi.