Per la prima volta il leader di una coalizione viene investito dalla
sovranità degli elettori, e non più soltanto cooptato dalla volontà degli
eletti. Questo straordinario esperimento democratico tentato dal centrosinistra
si produce nelle stesse ore in cui il Paese vive l’ennesimo choc autocratico
operato dal centrodestra.
A nessuno può sfuggire la non casuale coincidenza tra le primarie
dell’Unione (simbolo compiuto di una democrazia bipolare e maggioritaria) e la
riforma elettorale del Polo (indice inequivoco di una regressione
proporzionalista). È assai probabile che questo grave strappo dei disperati
oligarchi del centrodestra abbia avuto un formidabile effetto mobilitante presso
gli indignati elettori del centrosinistra. In ogni caso, è sicuro che i due
eventi, in sequenza, ci restituiscono l’immagine di una frattura culturale
profonda. Di qua un’identità collettiva che risponde alla chiamata del suo
leader, e dimostra di esistere, di voler partecipare e contare nelle scelte
condivise di una vasta alleanza. Di là una coalizione personale che obbedisce
agli ordini del suo capo, e impone al Parlamento regole del gioco riscritte a
proprio comodo nell’ombra di Palazzo Grazioli o nella penombra di una baita
alpina.
Questa vittoria della democrazia è anche e soprattutto la vittoria di
Prodi. Oggi si conosceranno meglio le percentuali di voto ottenute da tutti i
candidati. Ma è quasi certo che per il Professore si tratterà di un trionfo. E
dunque anche di un “premio” al suo grande coraggio politico, di cui a questo
punto gli si deve rendere tutto il merito. Ha voluto ad ogni costo queste
primarie. A molti sembravano una cerimonia futile.
L’incoronazione di un leader che, per convinzione razionale o per
assuefazione inerziale, era comunque già riconosciuto come tale da un’intera
coalizione. Ad alcuni sembravano un azzardo inutile.
Nella migliore delle ipotesi, una improvvida possibilità offerta a
Bertinotti per spostare a sinistra il pendolo dell’alleanza. Nella peggiore, una
temibile opportunità regalata a Berlusconi per dimostrare che il Professore è
ormai un’anatra zoppa. Hanno avuto torto gli uni e gli altri. E alla fine ha
avuto ragione lui. I risultati di queste primarie lo rigenerano, e lo curano in
via definitiva da quella comprensibile “sindrome di legittimazione” che lo aveva
colto dopo l’amara delusione per l’accantonamento della sua lista unitaria,
colpita al cuore proprio da una “costola” di quel partito-laboratorio di centro
che il Professore aveva inventato dal nulla dopo l’addio a Palazzo
Chigi.
Insieme a Prodi hanno vinto anche le forze politiche che più l’hanno
sostenuto e assistito, nel cammino non sempre facile e non sempre lineare di
questi mesi. La Quercia di Fassino e D’Alema, soprattutto. E poi, con
determinazione intermittente, anche la stessa Margherita di Rutelli. Ma insieme
a Prodi ha vinto anche una certa idea della politica che a volte, in questo
lungo quinquennio di traversata nel deserto berlusconiano, ha finito per
valicarne i confini, e lambire persino i territori incerti dell’anti-politica. I
girotondi, le piazze, la famosa “società civile”.
Il successo di ieri esalta e soddisfa, ma non risolve i problemi che
cominciano da oggi. I numeri della notte dicono che Prodi, a dispetto dei
critici o degli scettici, ha accumulato e conservato tra gli elettori un suo
enorme “capitale”. Alimentato dai partiti, ma fatto anche di quel diffuso
“ulivismo” che, con alterne fortune, resiste ed esiste, dal ’96 ad oggi, al di
sopra o al di là dei partiti. È ora che il Professore investa questo capitale
sul mercato politico. Il “contenuto” verrà, verranno i programmi e le idee per
un’Italia da ricostruire. Ma adesso non si può più prescindere da una
riflessione sui “contenitori” dell’alleanza. Lo impone la logica sciagurata
dello stesso “golpe elettorale” azzardato dal Cavaliere, che paradossalmente
sancisce il suo fallimento: il ritorno all’indistinto del proporzionale si deve
proprio l’uomo che in questi anni, per ideologismo e per radicalismo, ha
favorito lo sviluppo di un’Italia sempre più bipolare. Lo esige l’efficacia
straordinaria di queste stesse primarie, che potenzialmente prefigurano la
futura premiership del Professore: l’involuzione di un sistema elettorale, per
quanto iniquo e pasticciato, non pregiudica comunque l’affermazione del
centrosinistra alle elezioni del 2006.
Dunque, se c’è una scelta coerente per il buon investimento del capitale
politico di Prodi, a questo punto non può che essere la lista unitaria
Ds-Margherita-Sdi. Il nucleo duro dell’Ulivo. Era stata una felice intuizione,
con la quale Prodi ancora a Bruxelles aveva preparato il suo grande rientro nel
campo della politica italiana. Era un’idea alta, con la quale si prefigurava uno
sbocco credibile alla fragile transizione italiana e un consolidamento del
nostro bipolarismo imperfetto: una grande formazione dei riformisti nel
centrosinistra, che attraverso un’inevitabile spirale competitiva avrebbe potuto
innescare un analogo processo di aggregazione dei moderati nel centrodestra.
Congelata questa proposta, per la strenua e autoconservativa resistenza di
Rutelli, il Professore era stato costretto a cercare altrove il sigillo alla sua
leadership. Non più in un disegno politico al servizio di una ricomposizione dei
partiti “storici”, ma in un plebiscito popolare che a quel punto, e in qualche
modo, li trascendesse.
Adesso che il plebiscito è arrivato, Prodi deve andare fino in fondo. Senza
se e senza ma. Quegli oltre tre milioni di italiani che hanno votato ieri gli
danno la forza per farlo.