Prima di tutto i fatti. I dati a disposizione della Commissione europea sui deficit italiani sono noti: 3% nel 2004, 3,6% nel 2005 e 4,6% nel 2006. Ma Eurostat, che deve verificare i dati, stima il deficit 2004 oltre la soglia del 3%.
Ciò fa scattare la «procedura di deficit eccessivo» prevista dal Trattato di Maastricht e annunciata ieri dal commissario Almunia. In base a scadenze precise, la procedura determina se il deficit è troppo alto, induce l’Italia a correggerlo e, in assenza di ciò, porta il Consiglio a sanzionarla.
Il primo passo è quello di ieri: in base all’articolo 104.3 Almunia annuncia la preparazione di un rapporto, dovrà quindi esprimere un’opinione e inviarla al Consiglio Ecofin. Entro giugno, il Consiglio deciderà a maggioranza qualificata e su raccomandazione della Commissione, se il deficit italiano è eccessivo.
Entro settembre l’Italia dovrà disporre correzioni efficaci, tali da ridurre di mezzo punto di Pil il deficit nell’anno (o nei due anni, se va bene) successivo a quello di violazione. In assenza di ciò il Consiglio Ue decide le sanzioni, al più tardi dieci mesi dopo la segnalazione di ieri: si arriverebbe così al gennaio 2006.
Ecco dove si trova il governo: tra l’incudine di una correzione severa – una manovra da almeno 1,5 punti di Pil per ridurre il deficit tendenziale del 2006 al 3,1%, senza contare l’addio alle promesse fiscali – e il martello di una pesante sanzione politica all’inizio dell’anno elettorale.
Può sperare nella modifica del Patto di stabilità? No: c’è pressione da ogni lato (Bce, altri Paesi, mercati) perché il Patto resti efficace e purtroppo il primo vero test è proprio l’Italia. Può sperare che Francia e Germania ricambino gli aiuti che permisero il loro trattamento privilegiato?
Nemmeno: Parigi e Berlino evitarono grazie a Roma la sanzione politica, ma poi seguirono le raccomandazioni della Commissione e ora stanno, pur tra incertezze, completando il rientro sotto il 3%.
L’Italia comincia ora la procedura ed è sola. Non resta che seguire le indicazioni della Commissione come hanno fatto gli altri Paesi: una Finanziaria «commissariata» da Bruxelles, strappata dalle mani di chi vorrebbe politiche dissipatrici ed elettorali.
A ben vedere sarebbe un’opportunità anche per il governo, può ritrovare grazie al vincolo europeo una linea condivisa che da solo non sa più trovare. Bruxelles potrebbe accogliere bene, col rigore, la sostituzione di spese correnti con investimenti, la riduzione del cuneo fiscale e le misure a favore di crescita e competitività.
Per il governo significa cambiare strada. Il velo dell’illusione fiscale è strappato. Nell’ipotesi migliore si è trattato di una scommessa andata male. Nei primi due-tre anni il governo poteva sperare di finanziare la propria politica economica con un po’ più di debito e un po’ meno di tasse.
Non era stravagante in presenza di tassi d’interesse reali negativi. Ma i margini di manovra erano irrisori e dal 2003 si sarebbe dovuti «rientrare». Ciò non è avvenuto e i conti sono ormai fuori linea.
Gli economisti chiamano «equivalenza ricardiana» l’ipotesi che non ci sia vantaggio nel finanziare la politica con debito anziché con le tasse: un cittadino razionale capisce infatti che più debito oggi, significa più tasse domani.
Perché si faccia illudere e quindi si entusiasmi per tasse un po’ più basse, sono necessari almeno due requisiti: che veda il futuro con cieco ottimismo e che attribuisca un valore irrazionale al taglio delle tasse.
Il lettore riconoscerà in questi requisiti una parte considerevole dei messaggi politici del governo degli ultimi anni. Non ha funzionato come era prevedibile in un Paese che ogni giorno paga caro i debiti accumulati nel passato.