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30 Giugno 2005

L’imam rapito, il governo e l’alternativa del diavolo

Autore: Giuseppe D'Avanzo
Fonte: la Repubblica

IL SILENZIO del governo non poteva continuare, a meno di non voler perdere la faccia. Così oggi il povero Giovanardi (dov´è Berlusconi Dov´è Letta) andrà in Parlamento a spiegare che cosa Palazzo Chigi ha saputo del forcible abduction (prelevamento forzato) di un egiziano (Abu Omar), protetto in Italia dallo status di rifugiato politico, sequestrato il 17 febbraio 2003 a Milano da una ventina di agenti della Cia; trasferito nella base aerea di Aviano e torturato; deportato in una segreta in Egitto e ancora torturato, al fine di farne una spia degli americani in Europa.

Il compito del governo non è agevole. Ha davanti due soli sentieri, e sono malsicuri. Può ammettere d´aver acconsentito all´operazione illegale. Che il governo infili questo passaggio è ipotesi superflua. Se dovesse farlo, presterebbe il fianco senza alcuna difesa all´accusa d´aver deliberatamente violato lo Stato di diritto, svenduto la sovranità nazionale al potente alleato e, all´arbitrio e a tormenti inquisitori, la libertà di un uomo (non “ricercato” da nessun Paese al mondo e, anche se indagato, mai minacciato in Italia da una richiesta d´arresto).

Escluso che il governo faccia questa mossa. C´è dunque da imboccare solo il secondo passaggio, infido quanto il primo. Il governo può dire di non averne saputo nulla, ma la dichiarazione impone due effetti. Il primo, interno e “tecnico”.

Il secondo, politico e internazionale. Perché mette sotto pressione la qualità professionale di un´intelligence (Sismi,
Sisde) e di una polizia (Digos, Ros) che s´è lasciata menare per il naso, almeno per sette giorni, da almeno 20 uomini della Cia (ma forse 40) nel cuore più controllato, osservato, spiato, ascoltato, monitorato della Milano “islamica”.

La seconda controindicazione del «non sapevamo nulla» è naturalmente più problematica perché impegna il nostro rapporto con Washington. Il “prevelamento forzato” (che la Cia chiama, scolorendone l´abuso, extraordinary rendition) è autorizzato dal presidente degli Stati Uniti.

Non potrebbero volare i soliti stracci. Una protesta diplomatica del governo italiano contro l´operazione della Cia in Italia sarebbe allora un´accusa di violazione della nostra sovranità non contro la decisione illegale d´un Dipartimento o di un´Agenzia, ma esploderebbe direttamente sulla faccia di George W. Bush.

Berlusconi dovrebbe censurare il tradimento e la doppiezza dell´amico americano che vuole presto ospite in Costa Smeralda. Se il premier si decide a questo passo, deve essere sicuro (ma proprio sicuro) che Palazzo Chigi non sia stato informato perché sarebbe umiliante una controreplica della Casa Bianca e disastrosa, nel cortile di casa nostra, una levata di scudi dell´intelligence o della polizia, lasciata in braghe di tela da Gianni Letta, responsabile politico dei servizi segreti.

L´”alternativa del diavolo” che, oggi, avrà davanti il governo è solo uno degli aspetti del sequestro illegale di Abu Omar, prezioso prototipo di quel è stata in Italia la Guerra al Terrore.

A voler soltanto andare sotto la superficie dei fatti, la forcible abduction del rifugiato egiziano chiama in causa, con le responsabilità del governo (e dell´intelligence), il lavoro della magistratura.

Ci sono troppe cose che non tornano nell´attività della Procura di Milano e chiedono una ragione. Il giudice Chiara Nobili sottolinea nella sua ordinanza, in grassetto nero, che “per oltre un anno le indagini non fanno progressi”.

Non era un´indagine difficile, come si sa. Un paziente screening delle telefonate mobili ristrette in un paio d´ore alla “cella” di via Guerzoni, dove è stato rapito Abu Omar, non sarebbe stato “un progresso”, ma la soluzione del caso.

Invece, quando quel lavoro è stato avviato, malauguratamente, è stato fatto nel giorno sbagliato. Come osserva il giudice, «non nella data del 17 febbraio 2003 (giorno in cui i fatti si sono verificati), ma in quella del 17 marzo del 2003».

Si viene a capo dell´errore soltanto sette mesi dopo, l´8 ottobre. Nello stesso periodo, l´imam egiziano della moschea di via Quaranta a Milano riferisce al pubblico ministero Dambruoso che, da voci che gli sono giunte dall´Egitto, «Abu Omar è stato sequestrato dalla Cia, con la collaborazione dei servizi italiani ed egiziani».

Ne ricava solo l´incredulità sarcastica del magistrato. Che, per sua via, avrebbe potuto in modo diretto mettere sotto pressione l´Agenzia di Langley. Nel maggio del 2003 vola a Washington, secondo alcuni al Dipartimento di Stato. Pone il problema dell´intrusione della Cia a Milano.

Non si sa. Stefano Dambruoso avrebbe avuto un´altra opportunità. Ascoltare direttamente Robert Seldon Lady, il capostazione della Cia a Milano. Ha con “Bob” un rapporto di consuetudine. L´americano è stato l´anima almeno di due inchieste condotte da Dambruoso contro Al Muhajirun e Ansar Al Islam.

Non si sa se l´abbia mai fatto. La risolutezza ossessiva della procura di Milano contro Ansar Al Islam è un altro buco bigio. Ansar Al Islam è stata costituita, all´inizio del 2001, da tre gruppi (Hamas al-Tauhid, Marzak-i-Islami e l´Islah del mullah Krekar) che si staccano dal Movimento islamico del Kurdistan (Imk). I tre gruppi non andranno mai d´accordo.

Separatamente mandano i più giovani ad addestrarsi nei campi in Afghanistan di Osama bin Laden senza stringere un patto operativo. Lo sceicco saudita vuole la guerra globale, i curdi la guerra in Kurdistan.

Solo nel dicembre del 2001, ancora una volta insieme, i tre gruppi promuoveranno un´ondata di violenti attacchi contro l´Unione patriottica del Kurdistan (Upk). «La ferocia degli attacchi, con massacri rituali di prigionieri peshmerga e attentati suicidi contro uffici del governo, è senza precedenti» racconta Jason Burke nell´inchiesta Al Qaeda.

Ma la violenza di Ansar si scatena sempre contro i curdi dell´Upk. Presto finiscono a mal partito: più o meno cinquecento uomini in una serie di valli e montagne a poca distanza da Halabjah, nel nord dell´Iraq, circondati ai tre lati dai peshmerga e, nel quarto, dalla frontiera dell´Iran.

Dove fuggiranno i sopravvissuti dei bombardamenti di fine marzo 2003, che dimezzano la formazione (ora ridotta più o meno a 300 uomini). Il mullah Krekar vive oggi libero in Norvegia dove lo ha incontrato anche il direttore del Sisde, Mario Mori.

È incomprensibile l´esclusività indagatoria che la procura di Milano ha assegnato a questo piccolo gruppo curdo di disperati, se non si sa che Blair e Bush sono convinti, nell´estate del 2002, che Ansar al Islam sia il filo che allaccia il terrorismo di Bin Laden alla dittatura di Saddam, e quindi può essere una ragione per l´invasione dell´Iraq.

La subalternità delle iniziative di una procura ai “bocconi avvelenati” di servizi segreti, desiderosi di offrire intelligence a conferma delle opzioni politiche dei governi, segnala un´altra traccia del “caso Abu Omar”.

E forse spiega le negligenze di ieri della procura di Milano e le timidezze di oggi. Perché, ad esempio, lo screening del cellulare di Robert Seldon Lady è stato ristretto (almeno negli atti) soltanto alle telefonate connesse agli agenti americani e non a tutti i numeri contattati.

Si sarebbe forse (o certamente) potuto apprendere se, prima dopo o durante la forcible abduction di Abu Omar, il capostazione della Cia si sia messo in contatto con “autorità” italiane, e quali, e a quale livello.

Il “prelevamento forzato” di Abu Omar, dunque, non è solo l´esempio dell´arroganza americana e della complicità italiana con quell´arroganza. Può essere il modello di come, in nome della Guerra al Terrore, segmenti della magistratura italiana possono essere andati oltre il “sicuritarismo” e quella crisi della ragione giuridica che in Italia, nei momenti di
emergenza, concede ai magistrati di guardare al reo dietro al reato; alla sua pericolosità e non alla sua responsabilità; all´identità del nemico più che alla prova dei suoi atti d´inimicizia.

Sembra che sia accaduto di peggio. Il lavoro di alcune procure può essersi prestato a fabbricare la verità sostituendo, con la manipolazione offerta dall´intelligence, un mondo fittizio a quello reale; un mondo immaginario attraversato da kamikaze armati di cianuro da versare negli acquedotti; di bombe da far esplodere nelle metropolitane e nelle cattedrali; di missili da lanciare contro San Pietro.

La rappresentazione posticcia ha disperso energie e risorse, utili alla sicurezza nazionale, per metterle al servizio di una politica di guerra, voluta e decisa altrove e in cui Roma è solo l´alleato subalterno e volenteroso.

È un´altra risonanza del sequestro di Abu Omar. Potere esecutivo e potere giudiziario, nella paralisi del potere legislativo di controllo, sono diventati mente e braccio. Indirizzo e azione, e non l´uno il limite dell´altro, in una logica ispirata più che alla Costituzione italiana alla Detention, Treatment, and Trial of Certain Non-Citizens in the War Against Terrorism, quell´unicum legislativo che concentra sul presidente Usa, elementi del potere legislativo, del potere esecutivo, del potere giudiziario.

È una deformazione molto evidente nell´attività della Procura di Roma. In quest´ufficio vengono raccolte, controllate, depotenziate e annullate tutte le inchieste che attengono alla guerra in Iraq e alla “guerra sporca”, psicologica e di disinformazione.

È quest´ufficio che non iscrive nemmeno nel registro degli indagati il venditore e confezionatore del falso dossier nigerino, consegnato dal Sismi al field officer della Cia a Roma come “la prova” che Saddam si sta procurando uranio per armi di distruzione di massa (è ancora oggi la ragione formale della guerra).

In casa dell´uomo, la polizia sequestra un imponente archivio di documenti che la procura, senza visionarli, riconsegna al falsario (collaboratore del Sismi). Passi sorprendenti che, come quelli di Milano, cercano ancora una ragione e un giudizio.

Si vedrà oggi come il governo si leverà d´impaccio, ma lo stato delle cose dovrebbe rendere vigile, se gelosa della sua autonomia e indipendenza, la magistratura (che come il governo ha finora taciuto) e attento il Parlamento (che, come il comitato di controllo sui servizi segreti, ha finora dormito).

In un Paese consapevole che “coloro che sono disposti a sacrificare la libertà per la sicurezza non meritano né l´una né l´altra” (Benjamin Franklin), il Parlamento penserebbe a una commissione d´inchiesta per accertare quali sono state, in questo scorcio di Guerra al Terrore, gli indirizzi del governo e la pianificazione e le complicità dell´intelligence.

Ma, si sa, in casa nostra le commissioni d´inchiesta parlamentare non sono un affare serio.