9 Ottobre 2005
L’Europa capro espiatorio
Autore: Barbara Spinelli
Fonte: La Stampa
SI parla molto di malattie d’Europa e di nefasti squilibri del mondo – da parecchi anni e in particolare da quando l’Unione e i suoi Stati non riescono a trovare il modo di dare al nostro continente sia i mezzi sia le istituzioni per poter decidere sul suo destino – e a forza di tanto parlarne il rischio è grande di perdere la bussola, di non saper più bene dove sia il reale e dove l’immaginario, dove s’annidi la verità e dove la menzogna.
Sappiamo solo che l’Europa non è più divisa tra le superpotenze della guerra fredda, che oggi le tocca agire con la testa propria, e che le parole sui suoi mali o sui mali del mondo si sono da allora moltiplicate.
Forse è venuto dunque il momento per i cittadini che votano di fermarsi un po’, e di pensare in profondità tutte queste parole che sentiamo dire e che noi stessi abbiamo la tendenza a dire. Siamo come immersi in una strana cultura della lagnanza, che accomuna governanti e governati e da cui nessuno ha desiderio effettivo di uscire. Pensiamo in quanto cittadini-elettori di esser autonomi e liberi, quando denunciamo gli errori o le mancanze dell’Europa o del mondo, ma ecco che ben presto i politici e governanti nazionali si mettono a scimmiottare le nostre lagnanze, denunciano l’Europa con lamentele straordinariamente simili a quelle del comune cittadino.
In realtà abbiamo dato ai governi una magnifica occasione per scaricare sul mondo esterno responsabilità che sono in gran parte loro, e della nostra autonomia e libertà rimane poca roba. In realtà siamo succubi di altrui lamenti, quando gemiamo sul mondo.
All’unisono con i governanti, difendiamo sovranità nazionali che il mondo ha già corroso, e rifiutiamo gli obblighi di sovranità che invece restano ancora ben salde nelle mani dei politici nazionali, e di noi che li eleggiamo o licenziamo. Questa tendenza è particolarmente forte in governanti che non vogliono analizzare o correggere i propri errori, che non riescono a riconquistare i consensi popolari perduti, e che nonostante tutto ciò vogliono restare dove sono: al potere.
Per far ciò hanno deciso di usare l’Europa o il mondo allo stesso modo in cui si usa un capro espiatorio o una polizza d’assicurazione. Se ci sono colpe nel modo in cui son stati governati i popoli o l’economia o l’occupazione, esse non hanno nulla a che vedere con i governi: sono di volta in volta colpa dell’euro, delle burocrazie di Bruxelles, di élite globalizzate.
Oppure sono colpa del terrorismo e dello stesso popolo, che quando va alle urne può rivelarsi sovranamente stupido o eversore. La colpa è di tutti, tranne dei governanti. A questo serve la strategia della lagnanza: a dimettersi dalle proprie responsabilità, senza sacrificare poteri e poltrone. In Italia il governo Berlusconi ricorre in maniera sistematica a questa strategia: che usa le imperfezioni d’Europa invece di costruirla e migliorarla, che adopera le crisi del mondo non tanto per capire la nostra impreparazione ad affrontarle ma per occultare tale impreparazione e rinviarla.
Abbiamo avuto nei giorni scorsi esempi probanti di tale metodo, durante l’incontro a Parigi tra il presidente francese Chirac e il presidente del Consiglio italiano, e negli ultimi discorsi di Tremonti ridiventato ministro del Tesoro. Berlusconi ha trovato in Chirac un ascoltatore estremamente ricettivo, assai contento di condividere con Roma l’uso autoassolutorio dell’Europa. Non siamo i soli infatti nell’Unione a accusare le istituzioni europee di ogni male, compresi i mali su cui Bruxelles non può decidere alcunché perché gli Stati glielo hanno impedito. Non siamo neppure i soli a raccontare enormi menzogne, alla maniera di Chirac che ha accusato la Commissione europea di non intervenire contro i licenziamenti decisi dalla Hewlett-Packard: un’incriminazione inane, perché la Commissione non può nulla in materia. Il capo di Stato francese non poteva trovare un modo più protervo e vacuo di rispondere al referendum del 29 maggio contro la Costituzione europea.
Quel che ha detto Tremonti è meno semplicistico ma non si scosta molto dalla cultura del lamento. È vero che la colpa della crisi economica non è dell’11 settembre, come i ministri di Berlusconi sostennero per anni. Che l’euro e la Cina emergente hanno avuto un peso più importante. Ma a questo punto si vorrebbe sapere: per quanto tempo durerà il lamento su Europa e Cina, dopo che è stato gettato frettolosamente alle ortiche il lamento sull’11 settembre? E ancora: come mai alcuni Paesi dell’Unione – a cominciare dalla Germania che è ridiventata campione mondiale delle esportazioni – non hanno sofferto come noi dell’euro e della Cina? Il vero male non è dunque nelle eurocrazie, e il mondo è difficile come quasi sempre lo è stato.
Il male è in politici che si mostrano molto interessati a mantenere il potere, ma a sbarazzarsi di responsabilità. Chirac e Berlusconi in questo si somigliano a tal punto che senza fatica hanno sormontato quel che in passato li aveva tanto divisi: la guerra in Iraq, i tratti di carattere e i modi di parlare. Oggi li unisce un’unica prosopopea della lagnanza, un’unica attitudine a cercare le cose del mondo più appropriate, a usarle lo spazio breve d’una campagna elettorale, e poi a gettarle nelle pattumiere come si getta un kleenex che non serve più. Ci fu un tempo in cui l’11 settembre spiegava ogni disastro. Poi furono usati in rapida sequenza: l’euro, la Commissione di Bruxelles, l’allargamento dell’Unione, la guerra in Iraq, il negoziato con la Turchia.
Tutti questi eventi esterni erano lì per scagionare i politici nazionali, e presentarli come mondi di peccato e addirittura di storia. Il caso francese è specialmente grave perché Parigi ha più peso di noi nell’Unione. L’incapacità dell’Eliseo a imparare qualcosa di costruttivo dai propri scacchi (impossibilità di rifare un’unione europea dopo la lacerazione dell’Iraq, impossibilità a immaginare un rilancio dell’Unione dopo il referendum di maggio) è all’origine della paralisi attraversata oggi dall’Unione.
In realtà tutti patiscono di quest’uso del mondo esterno che non edifica nulla, che è praticato a soli fini autoassolutorî di politica interna, che celebra anche in America i suoi trionfi sotto l’amministrazione Bush. Ne patisce l’Europa, perché a forza di menzogne si perde di vista quel che l’Unione in quanto tale può fare o non fare, quel che esiste già come Europa federale e quel che tuttora non esiste. Ne patiscono i governi e i politici nazionali, perché a forza di usare pretestuosamente l’Europa o l’11 settembre finiscono col descrivere se stessi come autentici miserabili: governanti riottosi magari, ma completamente impotenti e schiavi di forze esterne. E ne patiscono i cittadini-elettori, che vorrebbero correggere i governi, alle urne, ma che vedono i propri stessi lamenti fatti propri da chi dovrebbe correggersi, e usati per giustificare ogni sorta di stasi e omissione.
È significativo il volto che finisce per avere il mondo esterno nell’immaginario collettivo, quando questo è l’uso che se ne fa. Esso assume di volta in volta la faccia di Dio o del demonio: dell’unico grande demiurgo, comunque, in balia del quale ciascuno di noi si trova. Il terrorismo mondiale ha il volto di Satana: Bin Laden cavalca bianchi cavalli dell’Apocalisse, è una piovra che si organizza e colpisce con tale precisione che solo una guerra infinita può fargli fronte. Il potere tecnocratico ha il volto di un Dio severo e onnipotente, contro cui altra difesa non esiste che la lamentazione.
La fotografia di Jean-Claude Trichet, che l’altro ieri campeggiava sulla prima pagina del Financial Times, è un segno impressionante dei tempi che viviamo: il presidente della Banca centrale europea ha il dito puntato come il Creatore di Michelangelo, sui tassi che forse si rialzano forse no, e sul dito demiurgico pende una lampada che mima il sole acceso nella genesi.
Fiat lux: questa l’immagine che abbiamo del superbanchiere di Francoforte, e delle vilipese euro-bucrocrazie. Un’immagine demonizzata o divinizzata, che in apparenza prende su di sé tutte le responsabilità e lascia – a governanti o istituzioni nazionali – la dorata solitudine del potere e delle poltrone senza responsabilità.