Caro Direttore,
leggo con interesse il “medaglione” che Bruno Miserendino mi ha
dedicato ieri sul suo giornale. Non intendo intervenire sugli
aggettivi e sulle opinioni perché appartengono alla libera valutazione
di chi scrive che rispetto totalmente, anche perché non potrei
respingere gli aggettivi negativi senza privarmi degli apprezzamenti
positivi che riconosco numerosi. Poiché tuttavia questi medaglioni sono
destinati a restare da qualche parte in una qualche cartella, alle
quali si finisce per attingere sul filo della memoria o con l’aiuto di
Google, sento la necessità di alcune precisazioni almeno sui sostantivi
e sui fatti visto che gli aggettivi e le opinioni le considero a me
precluse.
Poiché Miserendino mi considera e mi tratta null’altro che come un
professore, qualifica nella quale mi sono riconosciuto per una intera
vita, tra i fatti mi limito ai testi e ai numeri, perché se un
professore non sa leggere e far di conto, non riuscirei proprio a
capire in che cosa consiste il suo prefessorume.
1. Parisi dice Miserendino “non si è nemmeno letto l’ordine
del giorno del consiglio nazionale, perché se no – spiegano al
Botteghino – non avrebbe potuto dire che i Ds frenano sul gruppo
parlamentare unico”. Forse non ho capito ma io nell’Odg ho letto che il
Consiglio “impegna i parlamentari Ds eletti alla Camera e al Senato a
realizzare le forme più opportune di organizzazione unitaria dei gruppi
parlamentari”. Una formulazione non troppo dissimile anche se
sicuramente meno precisa del documento approvato dalla Assemblea
Federale della Margherita nel quale l’impegno è a favore di “uno
strumento parlamentare unitario in entrambi i rami del Parlamento,
assicurato dalla revisione dei regolamenti parlamentari”. E’ questo il
modo di dire che si intende dar vita ad un gruppo parlamentare unico?
Considerato che in parlamento l’unico modo di dire gruppo è usare
la parola gruppo, è meglio che chi pensa e promette di dar vita ad
un gruppo unitario, dica “gruppo unitario”. Se questo si presferisce
invece la locuzione “organizzazione” o “strumento” qualche motivo
ci deve pur essere. E se qualcuno lo fa notare non è perché è
preso dal solito raptus acceleratorio ma perché preferisce promettere
di meno ma mantenere ciò che promette, piuttosto che riavviare il
solito circuito di promesse di unità e successive delusioni che sono
all’origine dei ripetuti logoramenti nel rapporto tra noi e i cittadini
che ha contraddistinto gli anni che abbiamo alle spalle.
2. Rileggo poi ancora ancora una volta la favola messa a suo
tempo in giro sopratutto dal solerte Fabrizio Rondolino che il Governo
Prodi sarebbe caduto perché l’astratto Parisi fece male i conti. In
passato ho letto che avrei promesso un voto di maggioranza, oggi vedo
che la maggioranza da me promessa sarebbe stata di “cinque voti”. E’
evidente che non mi illudo di sfatare con una battuta una favola che
pretende di diventare verità solo per la sua indimostrata ripetizione.
Un giorno, quando i protagonisti di questa vicenda saranno diventati
tutti ex mi ripropongo di raccontarla con qualche particolare in più.
Mi limito perciò a lasciare di nuovo a verbale la seguente domanda:
considerato che la richiesta di andare ad un voto fiducia non è
stata evidentemente una mia iniziativa personale ma del governo e della
maggioranza, i casi sono come spesso due. O la previsione del rischio
di andar sotto era una previsione comune e allora abbiamo sbagliato
tutti assieme. O il calcolo dei voti disponibili era difforme tra le
previsioni della presidenza e quelle di altri. Poiché non ricordo che
nessuno abbia segnalato alla Presidenza previsioni diverse, la domanda
residua è una sola. C’era qualcuno che disponeva di numeri diversi
e non ce li ha comunicati? E se non lo ha fatto perché? Sono domande
sulle quali sono stati raccolti alcuni elementi interessanti di
risposta, ad esempio in riferimento al passaggio improvviso di fronte
dell’on. Silvio Liotta. Ma non è ancora giunta una risposta soddisfacente.
Mentre restiamo in attesa mi faccia semplicemente aggiungere che il mio
unico contributo alla vicenda è stato quello di chi ha sostenuto
che era meglio rischiare di perdere che accettare di perdersi. Se, dopo
sette anni, l’Ulivo è di nuovo sulla scheda ancorché in un solo
ramo del Parlamento sotto la guida di Prodi credo lo si debba anche al
fatto che in quella occasione l’Ulivo perse ma non si perse.
Con amicizia. Arturo Parisi