2 Febbraio 2006
Lettera aperta ai miei compagni
Autore: Michele Salvati
Fonte: Il Riformista
Sono iscritto al Pds-Ds sin dall’origine di questo partito, dal congresso di Rimini del 1991. Con Salvatore Veca, ho contribuito a… indovinarne il nome (Partito democratico della sinistra), anche se poi esso fu adottato per motivi contingenti e sbagliati. Se si va a rileggere il nostro appello dell’estate dell’89 (pubblicato su uno degli ultimi numeri della vecchia Rinascita, con un titolo che potrebbe essere riutilizzato ora per il partito democratico: Se non ora, quando?), si vede però che noi non avevamo nulla contro il socialismo – anzi, dicevamo chiaramente che il socialismo democratico aveva vinto la sua sfida contro il comunismo – e non ci interessava molto la polemica contro i socialisti italiani. Quella polemica fu invece determinante nell’adozione del nome che avevamo proposto, che non conteneva, ma per tutt’altre ragioni, gli allora esecrati termini «socialismo» o «socialdemocratico». Gli argomenti principali di quell’appello sono gli stessi che muovono me ora (e credo anche Veca) a sostenere un’ulteriore trasformazione, quella finale, la confluenza entro un grande partito democratico.
Nel Pds e poi nei Ds ho militato – il termine mi piace poco, ma è quello che si usa – lealmente sempre e spesso appassionatamente in questi quindici anni. Insieme a un piccolo gruppo di compagni, in esso ho condotto la mia battaglia politica per il partito democratico, testimoniata dagli scritti raccolti nel libro omonimo (Mulino, fine 2003). Ho fatto parte dei suoi organi direttivi e sono stato suo parlamentare durante la legislatura in cui il centro- sinistra ha avuto responsabilità di governo. Ho imparato ad apprezzare l’eredità di passione, impegno e onestà che il nuovo partito riceveva, insieme ad altri lasciti che mi piacevano meno, dal partito comunista. Insomma, anche se per temperamento sono assai poco partigiano, i Ds sono stati sinora la mia casa politica.
Perché questi riferimenti personali, che non mi sono consueti e che qualcuno potrebbe giudicare un poco fastidiosi? Perché vorrei si capisse bene che questo è un appello rivolto ai Ds e che viene dall’interno e da lontano. E’ la proposta di un iscritto al partito, sia pure in attesa di traslocare al partito democratico. Ed esprime la meraviglia che i suoi dirigenti non si rendano conto della necessità e dell’urgenza del compito che sta loro innanzi. Altri, in altri partiti riformisti, conducano la loro battaglia in casa propria: in Margherita c’è un bel gruppo che si impegna nella scia di Nino Andreatta. E altri ancora conducano la battaglia esterna, nei comitati per l’Ulivo, nelle associazioni per il partito democratico che stanno spuntando un po’ ovunque. A me, e ai sostenitori del partito democratico iscritti ai Ds, compete anzitutto cercare di convincere il nostro partito.
Un controfattuale
Necessità e urgenza, dicevo. Urgenza anche elettorale, perché ha perfettamente ragione Ilvo Diamanti (Repubblica, 22/01/06) a sostenere che gli elettori non ci capiscono niente in una lista unitaria alla Camera e liste di partito al Senato: o ci si presenta uniti sempre – e allora il partito democratico è un esito scontato – o ci si presenta sempre divisi, per sfruttare al meglio le caratteristiche della nuova legge elettorale. Uniti sempre non ci si voleva presentare: forse non era neppure conveniente, bisognava prima contarsi, …e poi dov’è questa fretta? Ma divisi, per i partiti, sarebbe stato ancor peggio, perché allora la presentazione di una lista Prodi sarebbe stata inevitabile, e questo era fumo negli occhi per i Ds ma soprattutto per la Margherita. Questo punto, anche se contingente, va un poco sviluppato perché è un esempio «controfattuale» molto efficace per capire le logiche di comportamento dei nostri partiti.
Il momento magico è subito dopo le primarie. Il 17 ottobre, appena noti i risultati, Prodi poteva convocare i partiti e far loro questo ragionamento: «E’ vero, il risultato di ieri dimostra solo che nel nostro popolo c’è una gran voglia di unità, una gran voglia di partecipazione, una gran voglia di defenestrare Berlusconi, e che io gli vado bene come candidato premier. Non è ancora una domanda esplicita di partito democratico. Ma la costruzione di questo partito, per natura sua, è un esercizio di arte politica. E’ profittare delle occasioni per costruire qualcosa che ancora non c’è, per soddisfare una domanda che è ancora latente in gran parte del nostro popolo; è una proposta egemonica che compete a noi, leader del centro-sinistra, se siamo veri leader. E allora facciamo così. Diciamo con chiarezza che subito dopo le elezioni faremo il partito democratico. E che però, per profittare al meglio di questa sciagurata legge elettorale, ci presentiamo divisi, io con la mia lista Prodi, voi con le vostre liste di partito. Tutti d’accordo, però, senza conflitti, e facendo mostra di grande unità». Potete immaginare le reazioni a questo discorso, se fosse stato fatto?
La lista Prodi avrebbe ottenuto una buona fetta dei voti del centro-sinistra, in parte ottenuti da coloro che non vogliono votare i partiti, ma in parte strappati ai partiti stessi: la Margherita, in particolare, si sarebbe dissanguata, soprattutto al Nord. E forse non sono estranei a questo possibile esito sia la fretta con la quale Rutelli ha accettato di fare una cosa che aveva sino a quel momento escluso, la lista unitaria, sia lo zelo con il quale si è messo a predicare le magnifiche sorti e progressive del partito democratico. Facendo la lista unitaria forniva una casa a Prodi e giurando sul partito democratico poteva indurlo a recedere dalla tentazione di farsi una lista propria. Ma anche i Ds non sarebbero stati molto contenti, diciamo così, perché a nessun partito fa piacere perdere voti. Insomma, basta costruire bene il nostro esempio controfattuale per rendersi conto del suo scarso realismo: Prodi avrebbe potuto forzare per ottenere qualcosa di più di una lista unica alla Camera e di vaghe promesse sul futuro, ma forzando avrebbe creato un vespaio, non un consenso entusiasta sull’operazione. E se è vero che la nuova legge avvantaggia uno schieramento a più punte, è anche probabile che tale vantaggio sarebbe stato perduto se le punte del centro-sinistra si fossero messe a litigare. A litigare proprio subito dopo che il popolo di centro-sinistra aveva loro mandato un messaggio di unità e di concordia.
Perso il momento magico, la minaccia della «bomba atomica», della lista Prodi, diventa sempre meno credibile mano a mano che ci si avvicina alle elezioni. Se i partiti non l’accettano con entusiasmo e non ne spiegano il significato alla luce del futuro partito democratico, sono sempre più esili i suoi vantaggi ed evidenti gli svantaggi: a credere nella sua possibilità e utilità per il centro-sinistra oggi sembrano essere rimasti solo Giovanni Sartori e Paolo Flores. Il bluff di Prodi, con le sue dichiarazioni e la sua lettera aperta del 15 gennaio scorso, è durato lo spazio di un mattino: i partiti hanno scrollato le spalle con fastidio e la cosa è finita lì. Insomma, sui partiti e le loro logiche gli eventi di quest’anno non mi inducono a mutare di una virgola la lunga e scettica analisi che ho svolto su questo giornale più di un anno fa («Romano Prodi e il messaggio per l’Italia», sul Riformista dell’11 dicembre 2004): se non sono guidati da leader innovatori, i partiti seguono logiche di minore resistenza, di trascinamento, di path dependence, guidate da puri interessi organizzativi. E non facciamoci ingannare dall’abilità dei leader: oggi Rutelli sembra il trascinatore del progetto, e i Ds sembrano relegati al ruolo di chi punta i piedi. Ma i timori della Margherita di essere fagocitati dai Ds nel caso il partito democratico si faccia «troppo» presto, e qualche ambizioncella egemonica all’interno dei Ds e della loro leadership di ex-Fgci, sono presenti oggi come lo erano un anno fa. Gli elettori non conosceranno le sottigliezze della rational choice, ma questa non è necessaria a capire che i due grandi partiti del centro-sinistra di voglia di fare, sul serio e in fretta, un partito democratico ne hanno pochina. E questo espone il centro-sinistra – che già ha i suoi guai col lato sinistro del proprio schieramento – alla sgradevole ambiguità che denunciava Diamanti e che ne colpisce proprio il motore riformista. Ma veniamo ai Ds.
Le resistenze nei Ds e l’alternativa al partito democratico
Capisco le resistenze della sinistra interna, del «correntino». Da un lato esse sono alimentate da reali differenze di analisi economica, sociale e politica e da seri conflitti di orientamento ideologico e culturale. Dall’altro esse sono il frutto di una valutazione strategica realistica circa il ruolo che una sinistra classista si troverebbe a giocare in un partito in cui il predominio di una sinistra individualistica e liberale diverrebbe ancor più schiacciante: si ritroverebbe come i residui dell’Old Labour nel New Labour di Blair e Brown, o come Lafontaine e i suoi seguaci all’interno di una Spd dominata dalla Neue Mitte di Schroeder. E i suoi leader sarebbero esposti alla sgradevole scelta se star dentro e soffrire o rompere decisamente, come ha fatto Lafontaine. Quanto più comodo è annidarsi nel vecchio partito, dove si viene tutti dalla stessa storia, dove è dominante è il mito dell’unità, dove sanno benissimo che Fassino è disposto a svenarsi pur di evitare una scissione! Non capisco invece le resistenze dei riformisti. Non capisco Peppino Caldarola. Biagio de Giovanni, Emanuele Macaluso, Massimo Salvadori, per citare persone che stimo, le cui concezioni politiche e valoriali faccio fatica a distinguere dalle mie, e che recentemente si sono spesi contro l’ipotesi del partito democratico mediante scritti di un certo impegno. O meglio, capisco i loro ragionamenti, ma credo che siano sbagliati, che sottolineino controindicazioni effettive senza vedere il problema nel suo insieme, e quindi le ancor maggiori controindicazioni di una scelta diversa.
Nella sostanza, mi sembra, questi compagni riformisti hanno sempre in mente l’idea di riportare, finalmente e stabilmente, gli ex-comunisti Ds nella loro casa madre, il glorioso partito socialista, e come socialisti radicarsi a pieno titolo nel partito socialista europeo. Insomma, è la vecchia idea di D’Alema, quella di un paese «normale», in cui ci sono conservatori e socialisti e non Ulivi, Margherite ed altre specie del mondo vegetale. Da leader politico, D’Alema si poneva però, e giustamente, un problema di egemonia: il suo partito socialdemocratico fatto di ex-comunisti doveva diventare un partito potenzialmente maggioritario e i partiti vegetali dovevano sparire o ridursi fortemente. Sappiamo come sono andate le cose: i Ds non sono riusciti a raccogliere tanti ex-socialisti (o anche ex- repubblicani, liberali, democristiani di sinistra…) da attenuare l’imprinting comunista del partito; i partiti vegetali vivono e prosperano; la vocazione maggioritaria è ben lontana, perché, se va bene, i Ds sfiorano il 22%. Insomma, l’asse riformista del centro- sinistra continua a essere composto da due partiti principali e D’Alema è stato rapido nel riconoscere (nei fatti, perché un’autocritica esplicita non l’ha mai fatta) l’errore commesso: oggi, mi sembra, si proclama un leale sostenitore dell’Ulivo e …in prospettiva, del partito democratico.
Perché questo è il punto: se si vuole un partito riformista con vocazione maggioritaria, capace di sfondare il muro del 30% e andare parecchio oltre, non si può pretendere che questo partito sia un partito socialista fatto …da ex-comunisti. Tutta la nostra storia «anormale», da Porta Pia e la conseguente costruzione di un mondo cattolico estraneo alla politica parlamentare e però fortemente organizzato, con importanti componenti riformistiche, alla prevalenza nel dopoguerra dei comunisti sui socialisti, alla necessità storica per quarant’anni di un partito né-di-destra, né-di-sinistra come la Democrazia cristiana al fine di arginare i comunisti, a Tangentopoli, tutta questa storia ci impedisce di essere un paese «normale», se normali sono quei paesi (non molti a dire il vero) in cui la sinistra è rappresentata da un grosso partito socialista riformista. Insomma, o si vuole continuare nel tentativo di trasformare l’ex-Pci in un partito socialdemocratico (comprensibile, perché si tratta del modello ideologico più vicino, della casa madre), ma allora si rinuncia alla vocazione maggioritaria e ci si rassegna a un centro-sinistra riformista fatto di due partiti, senza contare i piccoli. Oppure si vuole arrivare a un partito riformista a vocazione maggioritaria, capace di sfondare il muro del 30/35%, ma allora bisogna fondere questi partiti, accettare che l’identità socialista si mischi con le altre culture riformiste del nostro anormale paese, e soprattutto con quella di provenienza democristiana.
D’Alema s’era illuso di tagliare l’intricato nodo gordiano della nostra storia colla spada della sua spregiudicatezza politica e delle sue capacità di leadership. Non c’è riuscito e, da buon politico, abbozza. Ma il problema di egemonia l’aveva ben visto: possibile che i Macaluso, i Caldarola, i Salvadori non lo vedono? Come rispondono all’alternativa che abbiamo appena presentato? Nei loro scritti, e in quelli di altri che la pensano come loro, non l’ho mai vista identificata con chiarezza. Dall’apprezzamento che essi esprimono per la socialdemocrazia, dalle critiche che muovono a una possibile mescolanza delle diverse culture politiche riformistiche, dalla ostilità che manifestano per una fusione «affrettata» di Ds, Margherita e Sdi, si può pensare che una scelta l’abbiano fatta: preferiscono la purezza all’efficacia, un’identità socialista minoritaria a un grande partito riformista che tutto socialista non potrebbe essere. Sperano forse che col tempo e con la paglia, come per le nespole, possa anche maturare una capacità egemonica sul segmento riformista del centro-sinistra di un partito ex- comunista trasformato in socialista? Il correntino, quanto meno, ha le idee chiare: smettano i Ds di rincorrere a destra la Margherita, riconoscano di essere una forza di «vera» sinistra, si alleino con Rifondazione, e poi il centro faccia il centro e la sinistra la sinistra. Se, in un contesto che è ritornato proporzionale (e di questo sono contentissimi), il centro vorrà allearsi con loro, esso dovrà accogliere nel programma di governo almeno alcune delle loro richieste di vera sinistra. Se non vorrà farlo e si allea con la destra, ormai sdoganata, faccia pure: gli verrà fatta opposizione in parlamento e sulle piazze. Quali sono le idee strategiche dei riformisti: continuare il litigioso condominio riformistico con la Margherita?
La possibilità del partito democratico e i suoi vantaggi
Caldarola & Co. non hanno torto quando sottolineano le difficoltà di mettere insieme tradizioni culturali e ceti politici così diversi come sono quelli dei Ds e Margherita. Sarebbe più facile intendersi con i socialisti che però, pochi e deboli come sono oggi, non hanno alcuna intenzione di farsi fagocitare dai Ds: quando l’estate scorsa la Margherita si sfilò dalla lista unica di cui lo Sdi era il più convinto dei sostenitori, pur di non restare solo con gli ex-comunisti questo partito si è alleato con i radicali. Ma, come spesso avviene quando non ci piace una cosa, si sopravvalutano le difficoltà e i danni che comporterebbe il partito democratico, si sottovalutano gli eventuali vantaggi e, soprattutto, non si considerano i costi che conseguirebbero al non farlo. I costi del non-partito-democratico sono la più importante ragione per farlo: ne abbiamo appena fatto cenno (il «litigioso condominio» con la Margherita) e ci torneremo. Qui ci limitiamo a una breve rassegna delle difficoltà sopravvalutate e dei vantaggi sottovalutati: ne ho trattato ampiamente nel libro e gli argomenti sono sempre gli stessi. Dunque, solo i «titoli» dei principali.
Il primo riguarda il socialismo: qual è, oggi, l’ideologia delle correnti dominanti nei maggiori partiti social-democratici europei, nel Labour, nella Spd, nello stesso Psoe, con buona pace di coloro che credono Zapatero un pericoloso sovversivo? Se non la si vuole identificare con la Terza via di Giddens, ci si va molto vicino: nella sostanza è una delle innumerevoli varianti (una delle varianti di sinistra) nell’universo dominante delle ideologie liberali. Lo è, al fondo, per la sua scelta decisa dell’individuo come standard di giudizio delle scelte sociali. Lo è per la scelta del mercato: un mercato regolato in modo da controllarne le conseguenze più ingiuste (sempre secondo standard liberali) sugli individui da cui la società è composta, ma sempre di mercato e di capitalismo si tratta. Ne segue che un terreno comune, un punto d’incontro, con diverse tradizioni riformistiche è facile da trovare: oltretutto anche gli ex- democristiani di sinistra non provengono dalla koiné liberale e qualche passo in questa direzione devono farlo pure loro. C’è naturalmente il problema che non si può chiedere ai Ds di rinunciare alla partecipazione al partito socialista europeo e non si può imporre ai Dl di parteciparvi. Questo dipende più dal tradizionalismo e dal nominalismo del Pse che dalle effettive policies dei suoi principali partiti, del tutto simili, colla parziale eccezione del Ps francese, a quelle dei Ds italiani: ma finché il nominalismo perdura il problema esiste ed è abbastanza serio. Non così serio, però, da rendere impossibile una qualche soluzione provvisoria e da sacrificare ad esso un processo unitario che è giustificato da motivi assai più seri. E c’è poi il problema che non tutti i Ds sono disposti a giurare su On Liberty di John Stuart Mill, che c’è il correntino, e anche questo è un problema serio per un partito ossessionato dall’unità, dall’idea di tirarsi dietro tutti. Ne abbiamo fatto cenno prima e ci torneremo subito appresso, accennando alle singole policies. Io penso che una minoranza non-liberale, combattiva, sia un ingrediente importante in un partito democratico, e che le minacce di scissione siano più comprensibili alla luce delle incertezze della maggioranza – i nostri Salvi, Mussi & Co. sanno bene che gli stessi riformisti sono esitanti – che non di una reale intenzione di uscire nel caso il partito democratico si faccia. E poi dove andrebbero? Dopo essere stati in un grande partito, andrebbero con i comunisti italiani o con Rifondazione? E questi li vorrebbero? I volonterosi federatori dell’estrema sinistra incontrano difficoltà ancor maggiori di noi riformisti, come abbiamo visto dai risultati di chi ci ha tentato seriamente. Insomma, come per il caso del Pse, una leadership decisa e convinta non si fa frenare da queste preoccupazioni.
Data la koiné liberale cui i due partiti sono approdati, non genera sorpresa che le politiche economiche e sociali proposte dai Ds e Margherita siano molto simili, e simili a quelle delle correnti riformistiche moderate dei grandi partiti socialisti europei: Bersani e Letta la pensano allo stesso modo sulla politica economica, sulle pensioni, sull’assistenza, sulla scuola, sulla sanità e, se ci sono occasionali differenze, queste sono spazzate via dalla discussione, perché non dipendono da divergenze analitiche o ideologiche profonde. Lo stesso, ed è più sorprendente, avviene per l’Europa e per i grandi temi della politica estera: per entrambe le aree di policy le vere differenze sono interne ai due partiti, notevoli nei Ds tra i riformisti e il correntino, ma non assenti neppure nella Margherita. Le differenze tra i due partiti sembrerebbero più serie per quanto riguarda una terza grande area di policy, quella relativa ai temi della bioetica, della famiglia e soprattutto dei rapporti colla Chiesa cattolica. Questi temi, insieme a quelli dell’immigrazione e del multiculturalismo, diventeranno sempre più importanti nella politica del futuro, ma non bisogna farsi impressionare troppo dalle polemiche del presente, dalla scelta impolitica (facile dirlo col senno di poi) del referendum sulla procreazione assistita, dalle scelte divergenti dei Ds e Margherita in proposito. Se la koiné liberale tiene, non c’è possibilità di divaricazione profonda tra i due partiti: le posizioni così eloquentemente motivate dai nostri Tonini e Ceccanti facilmente possono diventare posizioni condivise dall’intero partito democratico e la spiegazione delle forti divergenze che si sono manifestate in proposito si capiscono assai di più alla luce di un conflitto di organizzazioni che non di un vero e profondo contrasto di idee. Mi spiego meglio. Con una gerarchia ecclesiastica che, in mancanza di un partito stabile di riferimento, fa attivamente lobbying presso i diversi partiti, e implicitamente promette vantaggi per quelli che sostengono policies più vicine alle proprie posizioni, si è generata una concorrenza tra partiti a schierarsi colla Chiesa. Per tradizione, nell’ambito del centro-sinistra, è la Margherita che poteva meglio profittare della situazione e la concorrenza con i Ds spiega l’estremizzazione del contrasto. E dunque si è calcata la mano su differenze ideali (in parte esistenti, ma in buona misura esagerate) perché esisteva concorrenza tra organizzazioni, una convenienza ad esasperarle. Ma faccio fatica a vedere nella Margherita un partito meno laico, meno attento alla distinzione tra Cesare e Dio, di quanto non fosse la vecchia Democrazia cristiana.
Insomma, cari Caldarola & Co., voi avete ragione a segnalare i problemi che ho passato in rassegna, ma credo di aver ragione io a ritenere che non siano insormontabili, che non possano essere questi i motivi per i quali ci si oppone al partito democratico. Così come non può esserlo la comprensibile irritazione per le battute infelici, e offensive per la tradizione socialista, che provengono dai vari Prodi e Rutelli oltre che dallo specialista in proposito, Arturo Parisi. Se si crede nella utilità sistemica di un grande partito democratico, nella possibilità reale, per la prima volta nella nostra storia, di creare un partito riformista a vocazione maggioritaria, i problemi che ho ricordato e le irritazioni dovute al conflitto tra le forze divise di oggi, possono essere superati di slancio e la fusione tra queste diverse forze può diventare un processo entusiasmante.
Cos’è in gioco, au fond? In gioco è la rimarginazione di ferite antichissime, che risalgono allo stesso nostro State and Nation Building, al non expedit, al fascismo, alla prevalenza dei comunisti sui socialisti nel dopoguerra. Il muro di Berlino ha distrutto il comunismo internazionale, ma Tangentopoli, la Lega, i comunisti e non ultimi i socialisti stessi hanno distrutto il socialismo italiano, lasciando gli ex-comunisti al posto loro. La Democrazia cristiana si è dissolta perché ne è venuto meno il ruolo storico, ma ha lasciato in vita corpose correnti di riformismo cattolico, mentre il grosso dei suoi effettivi andava, com’era naturale che andasse, nel centro-destra improvvisato genialmente da Berlusconi. Costruire un paese e un sistema partitico «normali», in Italia, non vuol dire costruire sul lato di centro-sinistra dello spettro politico un partito socialdemocratico potenzialmente maggioritario, operazione impossibile data la nostra storia. Vuol dire costruire un partito riformista-non-soltanto-socialdemocratico, questo sì potenzialmente maggioritario, utilizzando i materiali che la nostra storia ci fornisce. Dunque, il partito democratico. Se i capitani coraggiosi saltano fuori, se credono nell’impresa, questa è un’operazione entusiasmante, che può radicare nel nostro paese quella cultura liberal- solidarista-socialista che finora è stata appannaggio di sparute élite. Questo può essere il soffio vitale del nuovo partito. Che può coinvolgere, se si creano strutture di partecipazione e di democrazia adatte, oltre che i militanti dei vecchi partiti anche molte persone per ora estranee alla politica. Non è vero che il riformismo, anche la moderazione se è necessaria, sono poco entusiasmanti; non è vero che per mobilitare i giovani bisogna chiedere l’impossibile. Il possibile basta e avanza.
Il partito democratico: è ancora possibile?
Facciamo l’ipotesi (questa sì controfattuale) che io sia riuscito a convincere i miei amici Caldarola & Co., e tutto il gruppo dirigente riformista dei Ds, che il partito democratico sarebbe un’ottima cosa. Verrebbero meno, per questo, le esitazioni e le cautele che adesso sembrano predominare? Siccome i nostri capitani, oltre ad essere coraggiosi, devono anche essere prudenti, prima di imbarcarsi in una avventura così impegnativa, prima di sciogliere gli ormeggi di un porto modesto ma sicuro, prima di lasciare la casa in cui sono nati, che ha subito tante traversie ma è ancora in piedi, devono valutare con il massimo di realismo se l’avventura ha serie probabilità di buon esito, se l’impresa è fattibile. Se così fanno, oggi, devono riconoscere che le probabilità di buon esito – si vincano o no le elezioni – sono diminuite rispetto al passato e non sono molto alte. E che quindi occorre una dose di ottimismo e un impegno di volontà politica maggiori di quelli che sarebbero bastati in passato. Ciò perché, fino a pochissimo tempo fa, le motivazioni che sostenevano il partito democratico non erano solo quelle di contenuto cui ho fatto cenno prima, non era solo la grandezza storica del disegno, ma erano anche più modeste – ma molto potenti – considerazioni di convenienza politica ed elettorale.
Si trattava, fino al mutamento in senso proporzionalistico della legge elettorale, dell’opportunità di sfruttare appieno il sistema maggioritario in vigore per creare un solido e credibile «dirimpettaio» di Berlusconi, un equivalente di centro-sinistra rispetto a Forza Italia. Si trattava di creare una architettura del centro-sinistra simmetrica rispetto al centro-destra, con un partito dominante spostato verso il centro e i partiti più piccoli e più radicali spostati più a sinistra. Inoltre, in un sistema uninominale che rendeva necessario identificare candidati comuni nei singoli collegi, il coordinamento stava nelle cose stesse: valeva per l’intero centro-sinistra, ma a maggior ragione per i partiti più grandi. Insomma, si poteva sperare che un sistema maggioritario uninominale avesse in se stesso una logica che spingeva oltre il semplice bipolarismo, verso un vero e proprio bipartitismo. Di questa logica, è vero, non si vedevano ancora i frutti. Ma sarebbero bastate piccole modifiche al Mattarellum (ma anche ai regolamenti parlamentari e alla legge sul finanziamento dei partiti) per controllare le spinte alla frammentazione che questi ancora inducevano: e a tali modifiche sembrava dovesse limitarsi la nuova legge elettorale. Quel che è avvenuto è invece una vera e propria restaurazione proporzionalistica. Il premio di maggioranza e le soglie di sbarramento più basse per i partiti che partecipano a una coalizione ancora sospingono verso il bipolarismo, verso un confronto tra grandi coalizioni opposte, ma il contesto è profondamente mutato: le coalizioni sono indebolite, i singoli partiti sono tornati i padroni della situazione, si fanno liberamente concorrenza e possono giocare a tutto campo. La «lista unica» che Ds e Margherita presentano alla Camera (e non al Senato) è un grazioso atto volontario – che poteva non esserci e infatti non ci sarebbe stato senza lo straordinario risultato delle primarie – non una necessità politica come la presentazione di candidati unici dell’Ulivo nel precedente sistema: resisterà questo stato di grazia nelle prove elettorali successive?
La restaurazione proporzionalistica, oltretutto, avviene in un contesto costituzionale e politico che ne accentua le proprietà disgregatrici. La riforma costituzionale approvata dal parlamento è pessima, ma contiene norme che stabilizzano le coalizioni, che ostacolano la disgregazione della coalizione vincente: entrerà mai in vigore? La risposta negativa è scontata, perché la probabilità che essa sia respinta dal referendum è ancor più grande della probabilità di sconfitta del centro-destra nelle prossime elezioni politiche: in tal caso la partita si giocherà nel vecchio assetto costituzionale, ritagliato addosso a un sistema elettorale proporzionale. Ed è proprio la probabile sconfitta elettorale del centro-destra la terza grande spinta a disgregare le coalizioni: Berlusconi è stato il grande aggregatore, che non solo è riuscito a tenere insieme la sua armata Brancaleone, ma ha dato anche un contributo decisivo a consolidare la nostra. Che cosa faremo senza Berlusconi, senza il «grande nemico»? Che cosa avverrà del «polo» che egli aveva costruito?
Questi recenti sviluppi modificano seriamente, e in peggio, il quadro degli incentivi cui sono esposte le forze politiche che dovrebbero dar vita al partito democratico. Lascio da parte lo Sdi: se i socialisti non sono costretti a restare da soli con gli ex-comunisti, se la Margherita partecipa con decisione e in condizioni di forza alla costruzione del partito democratico, non ho dubbi che lo Sdi ritornerebbe all’ovile, che la rosa prevarrebbe sul pugno: di fronte al disegno di un grande partito riformista l’attrattiva di un piccolo partito laicista si ridurrebbe sino a scomparire.
E’ sulla Margherita che il nuovo quadro di incentivi opererebbe con pieno vigore, e qui non mi resta che riprendere e accentuare l’analisi che ho fatto un anno fa nel saggio su questo giornale che ho già citato. La nuova situazione apre alla Margherita un ventaglio di scelte molto ampio. Vediamo le due principali. Anche se, per convinzione profonda dei suoi leader, i Dl volessero veramente dar vita a un grosso partito di centro-sinistra, il proporzionale e la probabile disgregazione del fronte berlusconiano potrebbero indurli a una posizione di attesa: il loro obiettivo – non solo comprensibile, ma perfettamente legittimo – è di arrivare a una fusione con i Ds in condizioni di massima forza relativa ed è evidente che la loro capacità di attrazione sui frammenti (?) che potrebbero staccarsi dalla galassia berlusconiana è molto maggiore se si presentano come un partito di puro centro, non come un partito che si è già fuso con i Ds, in cui il bianco è già diventato rosa. Dunque – potrebbero pensare – tiriamo i freni e stiamo a vedere. Ma poi, seconda possibile scelta, quanto resisterebbe il desiderio di fondersi con i Ds nelle condizioni che ho appena descritte? Non riemergerebbe la speranza, mai abbandonata da alcuni dei più vecchi esponenti del partito popolare, di ridar vita a un partito di centro di notevoli proporzioni, un partito che potrebbe diventare l’asse della vita politica italiana? Certo, è un partito che dovrebbe coalizzarsi, perché anche questo sistema elettorale premia le grandi coalizioni. Ma adesso la teoria dei due forni potrebbe veramente attuarsi: sdoganati ex-fascisti ed ex-comunisti, chi potrebbe obiettare se un partito di centro, permanentemente al potere, si allea or con gli uni ed or con gli altri? Dunque, non soltanto tiriamo i freni, ma teniamoli sempre tirati: addio, partito democratico.
Io non ho il minimo dubbio, si badi bene, sulla sincerità di Rutelli e del suo impegno recente per il partito democratico. Ma la sincerità di un leader, il cui fine ultimo è quasi sempre il rafforzamento del suo partito, è una sincerità «date le circostanze», una sincerità sub condicione: se le circostanze cambiano, un’altra scelta può essere conveniente. Quasi sempre, dicevo: solo grandissimi leader riescono sia ad approfittare delle circostanze che a perseguire finalità più grandi dell’interesse immediato del loro partito, ad essere sia realisti che idealisti. Beato il paese che non ha bisogno di grandissimi leader: il nostro, purtroppo, ne ha bisogno.
E i Ds? I Ds (come An sull’altro fronte) sono penalizzati dal nuovo quadro di incentivi che si venuto a creare: questo allarga le opzioni per Margherita, ma le restringe per i Ds e An. L’unica opzione conveniente per i riformisti Ds è veramente il Partito democratico: solo questa (nelle circostanze italiane, in cui un partito socialdemocratico non è potenzialmente maggioritario) dà loro la possibilità di essere stabile forza di governo e non alleato occasionale e in condizioni permanentemente minoritarie rispetto ai centristi puri. Questa è la via d’uscita cui si sono preparati accentuando – non abbastanza, ma molto rispetto alle condizioni di partenza – i loro tratti riformistici e liberali. Se questa via d’uscita è sbarrata, la loro identità è sbiadita e le condizioni competitive in cui si svolge il gioco politico in un sistema proporzionale – in particolare la necessità di polemizzare con i centristi – inevitabilmente li sospingono nelle braccia delle loro frange più di sinistra, braccia ben felici di accoglierli: Bersani sarebbe costretto a polemizzare con Letta, Morando con Treu, …rendo l’idea? Il partito democratico, e un sistema veramente maggioritario, non soltanto sono un bene per il paese; sono la condizione necessaria di sopravvivenza e sviluppo per la corrente riformista dei Ds.
L’appello per i dirigenti Ds…
…segue dall’analisi che ho appena svolto. I dirigenti riformisti dei Ds si trovano nella circostanza in cui il loro interesse come ceto politico, come gruppo che vuole contare nelle scelte di governo, coincide con l’interesse del paese. L’interesse del paese – e qui non ho modo di sviluppare un’analisi che tanti, quorum ego, hanno svolto altrove – è quello di correggere le storture della seconda repubblica senza ricadere nei difetti della prima. (Non è forse sorprendente che nessuno abbia messo in rilievo con la dovuta enfasi che la nuova legge elettorale rovescia i risultati di un referendum che aveva coinvolto l’80% degli italiani? Non è forse questo silenzio un segno dei tempi, della rassegnazione di alcuni e della soddisfazione di tanti?) L’interesse del paese è di avere un sistema di alternanza civile, tra ceti politici diversi, e non la permanenza al potere dello stesso ceto: la democrazia ha delle difficoltà ovunque, è vero, ma è meglio una democrazia che consente agli elettori di sbarazzarsi di un ceto politico che non li ha soddisfatti che una democrazia che non lo consente. Un sistema maggioritario ben congegnato permette di raggiungere questo scopo assai meglio di un sistema proporzionale con premio di maggioranza come quello che il centro-destra è riuscito a imporre, vera polpetta avvelenata che già troppi hanno addentato. In un sistema maggioritario, poi, la costruzione di un grosso partito riformista, lo si chiami come si vuole, è fortemente incentivata, e non disincentivata come è in un sistema proporzionale. Tutto questo è un vantaggio per il paese e per la sua democrazia. Ma è anche un grosso vantaggio per la maggioranza riformista dei Ds: al di fuori di un sistema maggioritario e di un grosso partito riformista – dunque del partito democratico – essi incontrerebbero tutte le difficoltà che ho indicato prima.
Di qui l’appello (a) si impegnino i Ds a imporre subito nell’agenda del governo una legge elettorale maggioritaria: meglio una a doppio turno di collegio, ma potrebbe anche andare una a turno unico e senza quota proporzionale, come voleva un referendum fallito per un soffio e per il quale, diciamo così, gli stessi Ds non si erano spesi all’estremo. (b) si impegnino i Ds a trovare un accordo con Margherita su un processo costituente del nuovo partito da svolgersi entro la prima parte della legislatura. Anche pagando prezzi organizzativi alti, non giustificati dai rapporti di forza attuali: Margherita ha potenzialmente opzioni maggiori e queste vanno remunerate.
Non so se l’impegno dei Ds possa bastare per raggiungere questi risultati. Ma se i Ds non si impegnano, è sicuro che non saranno raggiunti.
Lettera pubblicata il 31 gennaio 2006