I nostri soldati lasceranno l’Iraq perché altrimenti Prodi smentirebbe se stesso. Allo stesso tempo, consolideremo la nostra missione militare in Afghanistan perché l’alternativa è uscire di fatto dalla Nato. Al netto della propaganda e delle finezze giuridiche, questo è il succo delle scelte che il Parlamento italiano si appresta a discutere. Si può approvare, respingere o anche sfumare tale approccio. L’importante è non farne una questione ideologica. Se invece consideriamo lo strumento militare per quello che dovrebbe essere, ossia una risorsa estrema della politica, possiamo riportare la disputa ai suoi termini concreti: quali sono i nostri interessi in Iraq e in Afghanistan e come possiamo meglio proteggerli?
I nostri interessi in Iraq sono abbastanza importanti – soprattutto energetici, in particolare il gas curdo caro all’Eni – mentre in Afghanistan sono pressoché inesistenti.
Ma per noi e per quasi tutto il mondo il cuore della regione resta l’Iran, dove abbiamo sostanziosi interessi energetico-commerciali (l’Italia è il primo importatore europeo e il secondo esportatore dopo la Germania) e geopolitici (l’assetto del Grande Medio Oriente, in particolare dei teatri iracheno e afghano, è in buona parte nelle mani di Ahmadinejad). È Teheran il vertice del triangolo Iran-Iraq-Afghanistan. In ordine di importanza. Eppure la nostra politica segue priorità inverse: robusta missione militare con corpose componenti civili in Afghanistan, blanda presenza civile (e forse qualche soldatino camuffato) in Iraq, autoesclusione dall’Iran, dove francesi, tedeschi e inglesi nemmeno fingono di rappresentare l’Europa nel negoziato sul nucleare.
Perché questa inversione?
Per le molto cogenti ragioni sopra evocate, nei casi afghano e iracheno. E per il gravissimo errore strategico del precedente governo, in Iran. Berlusconi aveva infatti rifiutato di impegnare l’Italia nelle trattative franco-anglo-tedesche con i persiani, quando l’Italia era presidente di turno dell’Ue e Teheran premeva per averci al tavolo degli europei. Dove, oltre che di nucleare – qui l’ultima parola spetta evidentemente agli americani – si tratta di influenze e di affari. Risultato: se mai si stipulerà un accordo fra Iran e altre potenze – ne siamo ancora molto lontani – l’Italia sarà assente; se si passerà invece alle sanzioni, queste colpiranno anzitutto noi. Con l’effetto combinato di due leggi finanziarie (D’Alema).
La priorità italiana nella regione è dunque rientrare nella partita per l’Iran. Se non è già troppo tardi. Per recuperare il posto che avevamo paradossalmente snobbato dovremo convincere i nostri alleati che anche l’Italia ha un ruolo di qualche rilievo nel Grande Medio Oriente. Dopo “Antica Babilonia”, in Iraq sarà molto difficile affermarlo. L’Afghanistan è la nostra ultima carta. Converrà spenderla bene. Anzitutto stabilendo come stanno davvero le cose nel Paese che fino al 1979 era noto in Occidente quasi solo agli hippy che aspiravano ai suoi pregiati spinelli.
Il processo di ricostruzione istituzionale, sociale ed economica di quel Paese sta fallendo. Certo, esiste un Parlamento eletto, con un governo legittimato e internazionalmente riconosciuto. Peccato che i poteri effettivi siano altrove. Karzai non è nemmeno più il “sindaco di Kabul” ed è considerato una marionetta di Bush. Ma persino gli americani si domandano se non sia il caso di scaricarlo.
A Kabul cresce l’insofferenza popolare per la mano pesante dei militari Usa. Scarseggiano luce e acqua. Il pane costa dieci volte più che ai tempi dei taliban. Nel resto del Paese sono i signori della guerra e della droga – dei quali il fratello del presidente è un esemplare eminente – a regnare sui rispettivi feudi e a disputarsi i territori utili, dove si coltiva l’oppio. I taliban vecchi e nuovi sono più agguerriti e minacciosi che mai, godendo dell’appoggio di varie agenzie pakistane. E a cavallo delle province di frontiera afghano-pakistane stanno stabilendo una sorta di Talibanistan, centrato su Peshawar e Quetta.
Gli americani hanno capito che l’Afghanistan non sarà una success story. L’obiettivo è impedire che il fallimento diventi totale e soprattutto visibile. Sul piano militare, occorre riportare a casa il maggior numero di soldati possibile. E caricare sulle forze Nato, guidate dai britannici, una parte crescente del fardello della campagna anti-taliban e della repressione delle insorgenze locali. Ma l’estensione dei compiti dell’alleanza prevedeva un quadro di stabilizzazione progressiva, sicché gli americani avrebbero trasferito agli altri atlantici territori emancipati dalla guerriglia e dai kamikaze. Così non è. La coalizione di “Enduring Freedom” non riesce a sfondare. Sicché la Nato dovrebbe installarsi in province tutt’altro che bonificate (nel Sud in luglio, all’Est in ottobre), anche perché sono tra le più ricche di oppio (e di taliban). La differenza fra “Enduring Freedom” – la campagna antiterroristica di marca Usa – e Isaf – la missione di stabilizzazione Nato con copertura Onu cui partecipiamo anche noi – rischia di evaporare.
Questa è la nostra linea rossa. Non abbiamo alcun interesse a essere risucchiati nel conflitto che incendia le province meridionali e orientali e minaccia di estendersi al resto del Paese. Non sarà facile, perché anche nell’ambito dei “Provincial Reconstruction Teams” via via affidati dalla coalizione all’Isaf il confine fra repressione militare e ricostruzione è piuttosto labile.
Il nostro spazio di manovra è dunque compreso fra due paletti ineludibili: la partecipazione alla missione Nato-Isaf e la non partecipazione alla guerra ai taliban. Almeno finché sarà possibile distinguere fra le due operazioni. Qui non servono ipocrisie o ingegnose formule retoriche, come quelle a suo tempo inventate per bombardare la Jugoslavia in nome della “difesa integrata”. Servono fatti. Anche banali, come insistere sul basso profilo nell’approccio alle popolazioni locali, evitando l’esibizione di muscoli e di grinta all’americana. I nostri soldati non sono e non possono passare per occupanti.
Vanno invece enfatizzati i programmi civili, dove possibile. Consapevoli dell’opportunità di bandire ogni approccio coloniale. Secondo l’afghanologo tedesco Conrad Schetter, le organizzazioni internazionali, ispirate dagli americani, hanno ridotto quel Paese a un “grande campo di rieducazione”. Ad esempio, nel settore della giustizia, di cui siamo responsabili, non serve produrre eccellenti codici che restano sulla carta. Conviene semmai riscoprire e valorizzare il substrato tollerante dell’Islam locale, soffocato dai taliban, per farne la base effettiva del diritto e contrastare i micidiali codici tribali. Una sinergia particolarmente utile può essere sviluppata con i tedeschi, responsabili della polizia, nella formazione delle forze locali – dalla military police ai secondini. Anche per segnalare concretamente la nostra propensione verso la Germania in ambito euroatlantico, su cui questo governo tanto insiste. E per gestire al meglio la questione dei detenuti illegali in uscita da Guantanamo e in arrivo nelle carceri speciali dei Paesi d’origine, Afghanistan incluso.
Il destino dell’Italia non si gioca certo a Kabul. Non siamo mai stati una potenza asiatica né possiamo diventarlo. Ma il nostro rango nella Nato e i nostri interessi in Medio Oriente oggi si proteggono anche fra le montagne dell’Hindu Kush.