13 Giugno 2005
Le tre Italie e il cardinale
Autore: Giulio Anselmi
Fonte: la Repubblica
ALLE dieci della sera ha votato il 18,7 per cento: il “forza quorum” gridato dai propagandisti del sì non sembra avere scosso la maggioranza degli italiani. La domenica è finita, con i suoi interrogativi (quanti saranno quelli che anticipano il ritorno dal week end col ricordo irritato di un altro “andate al mare”?), resta il lunedì mattina. La partita è ormai giocata.
Ma, alle dieci della sera, la necessaria attesa dei risultati fino alla chiusura delle urne, un residuo di scaramanzia e un barlume di speranza inducono a fare soltanto alcune considerazioni sulle tre diverse Italie che emergono dal voto e sulla spaccatura, nettissima, che le divide.
C’è un’Italia ignava, indifferente, pigra, che non vota comunque, qualsiasi possa essere l’oggetto del decidere, si tratti di politiche o di amministrative, di referendum su grandi questioni di coscienza o su opzioni minori come la caccia ai fringuelli. Questa parte del Paese non si interroga sull’inizio della vita, o, se lo fa, rifiuta di collegare le sue riflessioni individuali a interessi collettivi. È la terra della separatezza e della diffidenza, incapace di trovare le energie morali per costruire un sistema di regole e comportamenti condivisi, che coincide in buona parte con le aree civilmente ed economicamente più povere. Non sarebbe certo una consultazione come quella sulla fecondazione assistita l’occasione per farla uscire dall’isolamento: con i suoi dubbi sull’embrione-persona, con le sue angosce sulle conseguenze del divieto di ricerca sulle cellule staminali per la salute e per la qualità della ricerca di un paese.
Ma il cinismo e la fantasia del cardinale Ruini, gran capo dello schieramento antireferendario, hanno annesso questi italiani neutri, finora sfiorati solo dagli statistici e dai sondaggisti, alle forze consapevolmente astensioniste, nel ruolo di vandeani di rincalzo. Il meccanismo elettorale, che prevede per la validità della consultazione la partecipazione della metà più uno degli aventi diritto, non consente infatti differenze tra chi si chiama fuori. E non è cosa da poco: gli astensionisti abituali oscillano attorno al 25 per cento, parecchi milioni di elettori.
Un argomento ha fatto da ponte tra le due masse di non votanti e ha moltiplicato le pile intonse di schede elettorali: la difficoltà della materia, impropria per una consultazione popolare. Per quanto infondata da un punto di vista costituzionale (perché la nostra carta fondamentale indica espressamente i temi sottratti a referendum) e discutibile dal punto di vista dei fondamentali democratici (per votare si torneranno a pretendere certificati di maturità, titoli di studio o di censo?), l’obiezione è stata colta da molti elettori malcerti, a caccia di una giustificazione. Nessuna giustificazione, se non la realpolitik, è stata addotta dal presidente della Cei: memore delle sconfitte disastrose sul divorzio e sull’aborto, spaventato da un sondaggio che, a gennaio, limitava al 14 per cento gli elettori risoluti al no, il cardinale si è convinto che bisognava evitare di contarsi.
Così, alla ferma difesa dei principi della dottrina che avrebbe imposto una posizione negativa, è stata anteposta la scelta dell’efficacia: la linea del non voto, senza preventiva discussione tra i vescovi, è stata imposta alle diverse anime del cattolicesimo italiano. L’Armata Ruini non ha ammesso dubbi, divisioni, dibattito sui valori in gioco, ha piegato vescovi, sacerdoti e politici di lungo corso. Contava solo il risultato, chiudendo un occhio sul mezzo scelto e sulle alleanze. Ottimi i teo-con, non credenti ma efficaci nella loro propaganda imbrogliona a colpi di eugenetica, di Goebbels, di Frankenstein. Meglio ancora gli uomini di centro-sinistra alla Rutelli che consentivano per di più di gettare scompiglio in un campo che il cardinal vicario guarda con sospetto, a partire dal suo leader Prodi, votante.
Se Ruini si prefiggeva di misurare il potere della Chiesa italiana, al prezzo di trasformarla in soggetto elettorale, fino al punto di collocare sugli altari i manifesti per l’astensione, ha senz’altro raggiunto l’obbiettivo. Prima di pronunciare un giudizio definitivo è opportuno attendere, ma già ora “don Camillo” può essere definito un vincitore: l’istituzione che governa appare portatrice di valori forti, ha una grande facoltà di interdizione, fa paura al mondo politico che, nel centro – destra come nel centro-sinistra, subisce la sua iniziativa e le sue pressioni come non avveniva neppure durante la prima repubblica democristiana. Le uniche crepe che possono aprirsi in una realtà apparentemente così solida stanno proprio negli eccessi di integralismo.
La terza Italia non si è battuta contro la vita (perché non di questo, malgrado gli eccessi accusatori, si trattava), ma ha cercato di migliorare una legge approvata tra mille dubbi dal parlamento e che non si fonda su certezze etiche e scientifiche: al fondo della mobilitazione c’era, e c’è, il timore che il referendum rappresentasse una prova generale d’attacco allo stato laico da parte di diversi fondamentalismi. Non è in discussione, contrariamente a quanto ha cercato di far credere Giuliano Ferrara a un pellegrinaggio di Cl a Loreto “la libertà di credere”. Ci mancherebbe.
Difendere la laicità dello Stato significa, invece, pretenderlo autonomo dai vari dogmatismi: non è ammissibile che concezioni rispettabili, ma discutibili, vengano imposte, nel nome di una fede, a chi nutre convinzioni diverse. L’alta sfiducia nelle istituzioni, in cui si ribalta l’elevato orgoglio nazionale degli italiani, non ha certo favorito il successo degli appelli al voto inteso come dovere civico, visto anche il cattivo esempio (ripetiamolo ancora: non sempre ciò che è legittimo è giusto) di alcuni tra i massimi rappresentanti delle istituzioni, Pera, Casini, Berlusconi.
Ma il civismo è una qualità dai contorni sfumati. Il pericolo di uno Stato etico, o, più concretamente nel nostro caso, di uno Stato clericale, ha contenuti molto concreti. Lo vedremo, credo, a partire dalla legge sull’aborto.