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10 Ottobre 2005

Le ragioni per dire nodi

Autore: Sabino Cassese
Fonte: Corriere della Sera

Conviene ritornare al proporzionale? Tralascio i vantaggi dei partiti (il centrosinistra dovrebbe conseguire una vittoria meno forte, l’Udc liberarsi del potere condizionante del «leader»). Tralascio anche i dubbi di costituzionalità sulla proposta di legge (rispetto delle norme sull’elezione del Senato e sul numero minimo dei senatori per regione, del principio della segretezza del voto, della nomina presidenziale del presidente del Consiglio, delle minoranze linguistiche, ecc.).

Valuto solo vantaggi e svantaggi collettivi.


La proposta della maggioranza di centrodestra prevede la ripartizione dei seggi con metodo proporzionale tra liste bloccate preparate dai partiti, che possono collegarsi in coalizioni con unico programma e unico candidato presidente del Consiglio. La coalizione con maggior numero di voti guadagna un premio variabile di seggi, che può essere anche molto alto, e comunque tale da raggiungere 340 deputati e 170 senatori. Le liste che da sole non abbiano raggiunto il 4 per cento dei voti e in coalizione non abbiano conseguito il 2 per cento sono escluse dal riparto dei seggi.

Questa proposta produce tre conseguenze.

Ridà ai partiti un ruolo dominante. Essi ridiventano protagonisti. Sono loro che scelgono i parlamentari. È a loro che deputati e senatori dovranno rispondere.


Accentua le divisioni tra i partiti alleati, perché ognuno di essi deve cercare voti per sé, innanzitutto nel bacino della coalizione di cui fa parte. I partiti dovranno procedere come alleati per vincere insieme, ma facendosi la guerra l’uno contro l’altro, per affermare il proprio peso nella coalizione. Aumenta il potere condizionante degli associati nella coalizione.


Ogni parte della coalizione mantiene la sua forza, non dipende dalla coalizione, perché ha seggi in misura proporzionale al suo peso. Esiste in quanto parte della coalizione per arrivare al governo.


Non si annulla se non arriva al governo. Il risultato complessivo di questo metodo di conteggio dei voti sarà la frammentazione, perché è difficile unire al vertice una piramide che nasce separata alla sua base. I partiti dovranno dividersi per contarsi, unirsi per vincere. Questo metodo modifica la scelta del 1993, che trasferiva la decisione sul governo dal Parlamento al popolo e, quindi, stabilizzava l’esecutivo, aumentandone la durata (si è passati da governi che duravano, in media, un anno a governi di durata media di cinque anni). La riforma elettorale del 1993 è stata attenuata dalla quota proporzionale, dal sistema di finanziamento dei partiti e da altre scelte dirette a bilanciare o contrastare la semplificazione del sistema politico. Non è servita a ridurre i difetti del multipartitismo.

Inoltre, su di essa si è innestata la paura del bonapartismo e della tirannide della maggioranza, paradossalmente altrettanto forte all’interno delle coalizioni che tra le coalizioni.


Il ritorno al proporzionale rischia di precipitarci nuovamente nella palude del parlamentarismo dei governi effimeri. La ragione dovrebbe consigliare, invece, di sperimentare fino in fondo (arrivando al doppio turno) la formula elettorale maggioritaria, scelta con il referendum del 1993 dall’83 per cento dei votanti.