Ma certo, le «larghe intese»: come non averci pensato prima? Un
«governissimo», o almeno un «tavolo» per «dialogare su tutto». Dal Quirinale
all’economia, dalla politica estera alle riforme, a cominciare -si capisce-
dalla giustizia e dal conflitto d’interessi. L’idea, lanciata dal Cavaliere un
minuto dopo aver perso le elezioni (senza mai riconoscerlo), è eccellente. Lui
ci lavora da tempo. Sono anni che il premier uscente (si spera) si produce in
sforzi immani per riportare un po’ di balsamica concordia nell’arroventato clima
politico.
Già il 25 marzo ’94, vigilia delle sue prime elezioni, rassicurava: «Se la
sinistra andrà al governo controllerà la stampa, la tv e l’economia attraverso i
processi, le prigioni e l’esilio». Quando poi Bossi rovesciò il suo governo,
pretendeva le elezioni anticipate anche se in Parlamento la maggioranza era
contraria. E, visto che Scalfaro obbediva al Parlamento, gli diede del
«golpista». Nel 1995, quando a dispetto degli exit poll dell’amico Luigi Crespi
perse le elezioni regionali, riconobbe sportivamente la sconfitta: «Gli elettori
si sono sbagliati: erano giusti gli exit poll». E, per le politiche del ‘96,
rilasciò una dichiarazione distensiva: «Siamo sicuri che, se vince l’Ulivo, ci
faranno ancora votare?». Anche Previti rassicurò gl’italiani: «Stavolta non
faremo prigionieri». Non bastò. E il Cavaliere, con squisito spirito
istituzionale, si congratulò con Romano Prodi: «I professionisti della sinistra
ci han sottratto un milione e 171 mila schede. La sinistra ha una lunga
tradizione di brogli» (col tempo i «voti rubati» divennero «1 milione e 700
mila», ad abundantiam).
Antesignano delle larghe intese, Berlusconi sosteneva che «il governo Prodi
si comporta come il governo Mussolini quando chiese i pieni poteri nel 1926, e
fu dittatura per vent’anni. L’Italia non è uno Stato democratico, ma uno Stato
poliziesco, l’unico in Occidente il cui governo è appoggiato da un partito di
estrema sinistra che crede ancora in Marx ed Engels», tant’è che «l’opposizione
sta diventando non più un diritto democratico, ma un rischio personale: io
rischio la mia vita». Infatti di lì a poco, nell’ottobre ‘98, il partito di Marx
ed Engels rovesciò Prodi e al governo arrivò D’Alema con Cossiga e Mastella. E
Berlusconi ancora lì a chiedere grandi intese: «Siamo al regime. Una democrazia
ferita, senza vera libertà, con l’occupazione dei posti di potere, delle tv,
delle aziende del parastato, con i posti di lavoro usati per attirare nuove
clientele e l’uso politico della giustizia, le visite della Guardia di Finanza
per spaventare chi non accetta di chinare la testa, il controllo della vita
privata nostra e dei nostri cari». Nel 2000 D’Alema, novello Stalin, si dimise
per aver perso le elezioni regionali. Arrivò il terzo premier rosso, Giuliano
Amato. E Berlusconi sempre lì con la mano tesa: «Chiameremo tutti i giorni Amato
l’utile idiota a Palazzo Chigi».
Nel 2001, fortunatamente, tornò la democrazia con la vittoria
berlusconiana. Ma per poco, perché i brogli delle sinistre ripresero a dopare le
elezioni comunali, provinciali, regionali, europee e suppletive, tutte vinte
dall’Ulivo. Ma il Cavaliere, stoico, sopportò cristianamente i soprusi e seguitò
a invocare il dialogo: «Se la sinistra andasse al governo, questo sarebbe
l’esito: miseria, terrore, morte. Come avviene ovunque governi il comunismo»
(17-1-05). «In Italia c’è uno Stato parallelo: quello organizzato dalla sinistra
nelle scuole e nelle università, nel giornalismo e nelle tv, nei sindacati e
nella magistratura, nel Csm e nei Tar, fino alla Consulta. Se si consentirà a
questo Stato occulto di unirsi allo Stato palese, avremo in Italia un regime
vendicativo e giustizialista» (5-4-05). Una campagna elettorale distensiva
quant’altre mai: «La democrazia e la libertà nel nostro Paese non sono ancora
garantite perché c’è un’opposizione che ancora sventola nelle sue bandiere i
simboli del terrorismo e della tirannide sovietica» (21-11-2005). «C’è
un’opposizione illiberale che vorrebbe che noi non votassimo» (22-11-2005).
«Dobbiamo fare una colossale operazione verità: spiegare che quelli della
sinistra, se andassero al governo, porterebbero il Paese al fallimento,
costringerebbero i piccoli imprenditori a chiudere, i produttori di vino a non
vendere più bottiglie, almeno negli Stati Uniti, gli industriali della moda alla
crisi, il made in Italy a non essere più apprezzato sui mercati… Questa
sinistra vorrebbe tanto ricoverarmi: li vedo come si voltano alla Camera per non
salutarmi» (25-11-2005). «Quelli della sinistra restano comunisti. Sono da
eliminare, se non fisicamente, politicamente» (26-11-05). «Se vince la sinistra,
addio democrazia» (13-12-05). «Se vince la sinistra, è per i suoi brogli»
(4-4-2006).
Con queste premesse, è naturale che si inizi a lavorare intorno a un
governo di larghe intese. Non si contano i leader dell’Unione che il Cavaliere
ha gratificato in questi anni della sua stima e del suo apprezzamento. Prodi:
«leader d’accatto», «maschera dei comunisti», «utile idiota», «bollito»,
«poveraccio» che «passava il tempo a svendere aziende pubbliche ai suoi amici».
Rosi Bindi: «Lei e Prodi sono come i ladri di Pisa: litigano di giorno per
rubare insieme di notte». Francesco Rutelli: «In vita sua, non ha mai varcato la
soglia di un posto di lavoro». Walter Veltroni: «coglione» e «miserabile». Fabio
Mussi: «un sosia di Hitler». Armando Cossutta: «uno che gestiva bande armate
negli anni non lontani del dopoguerra e ha continuato fino a pochi anni fa». E
poi D’Alema: «comunista», «stalinista», uno che «non riesce nemmeno a dire il
suo nome e cognome per intero, perché due verità di fila lo ucciderebbero» e
«usa lo Stato come il garage di sua zia, non è laureato, è stato a Mosca 33
volte e lanciava le molotov», insomma «mi ricorda Benito Mussolini». Per non
parlare di Piero Fassino: «complice morale del compagno Pol Pot» e «testimonial
ideale delle pompe funebri».
Ecco, come stupirsi per la proposta di un governissimo con i rappresentanti
di «milioni di coglioni che votano contro il proprio interesse»? Con gli
eredi-complici di chi «nella Cina di Mao bolliva i bambini per concimare le
campagne»? Se il Cavaliere non vede l’ora di governare con quei «Prodi,
Bertinotti e Rutelli» che solo il 6 aprile, sulla rivista «Pocket», definiva
«come la gramigna che infesta tutto ed è difficile da estirpare», come dubitare
della sua buona fede? Se Giulio Tremonti non sta più nella pelle di collaborare
con Visco e Amato che chiamava «gangster» e con Fassino («aviaria dell’economia»
e «uccellaccio del malaugurio»), e se Antonio Martino agogna un dialogo con
quell’Unione che un mese fa dipingeva come «una congrega di mascalzoni», come
non prenderli sul serio? È una questione di coerenza. «Non si può consentire a
chi è stato comunista di andare al governo», aveva giurato il Cavaliere l’11
maggio 2003. Infatti, coerentemente, non glielo consente.