NON c´è stata dunque tregua nella corsa per sradicare la nostra Costituzione dai suoi principi originari. L´estrema difesa sembra ormai affidata al referendum impeditivo.
Tutte le previsioni dicono che in quel referendum prevarrà la grande maggioranza moderata degli italiani: di centro, di sinistra e anche di destra. E che sarà battuto l´estremismo di chi predica e pratica ogni giorno, da quattro anni, un bipolarismo feroce: nelle leggi, nelle nomine, nell´informazione, nella immagine esterna del Paese. Il clima di divisione nazionale, appunto, cristallizzato nel disegno governativo.
Maestri giuristi ci spiegano anche che questo progetto comunque non funzionerà. I maldestri meccanici che vi hanno lavorato hanno avvitato bulloni a casaccio. Ne è uscito fuori un macchinario che sembra privo di logica motrice. Ma il punto non è in tutto questo.
Il punto, che peserà come una zavorra nella storia della Repubblica, è che con questo progetto si è rotto il bene più prezioso che ci univa dal 1946: la pace costituzionale degli italiani. È un bene che aveva resistito allo scontro tra laici e cattolici, tra liberali e comunisti e persino alla guerra civile fredda che per trent´anni, dal 1946 al 1976, aveva opposto pro-atlantici a pro-sovietici. Ora si è dimostrato che è sufficiente un calcolo elettorale a breve, una baratteria di coalizione, la voglia di agitare un successo parlamentare, sia pure di corta durata, per potere spezzare senza scrupoli quel segno storico della nostra unità.
E, allora, non basterà vincere un referendum. Esso non potrà essere una misura di conservazione. Dovrà essere piuttosto la riscoperta e la rifondazione dei principi e degli equilibri della Costituzione. Una battaglia, in questo senso costituente, per una ricostruzione della specifica identità istituzionale italiana nel grande movimento costituzionale europeo.
La riconquista della pace costituzionale significherà innanzitutto la ricomposizione delle garanzie violate. Dopo le rotture, ci sarà da ristabilire le garanzie per i tre grandi principi di base: l´equilibrio democratico tra maggioranze e minoranze; l´equilibrio parlamentare tra poteri e contropoteri del governo; l´equilibrio nazionale tra unità e pluralismo territoriale.
Risultano, infatti, fiaccate, in primo luogo, le garanzie democratiche. La stessa contestata procedura seguita in modo convulso per cambiare 53 articoli della Costituzione, con fortissima limitazione dei diritti dell´opposizione, dimostra, per sé sola, che in questo Paese il governo ormai può tutto. E può di più quando, come nel caso della revisione costituzionale, sono tecnicamente fuori gioco sia il Presidente della Repubblica sia, forse, la Corte costituzionale.
Manomettere, come fa il progetto, queste garanzie si traduce immediatamente in un attacco alla zona dei diritti fondamentali. Si è così costruita una passerella di aggressione che va dalla parte organizzativa della Costituzione alla parte, apparentemente illesa, dei diritti dei cittadini. La prima tradizionale tutela dei diritti è affidata alla ordinaria legge parlamentare. Ma questa ora non è più una difesa.
Questo degrado di sicurezza costituzionale avviene contemporaneamente al rigetto di tutte le proposte dell´opposizione che cercavano di adeguare le garanzie della Costituzione al nuovo sistema elettorale maggioritario.
Erano proposte che non ponevano minimamente a rischio la stabilità dei governi e le condizioni di governabilità. Il loro rifiuto è reso più cupo dal pesante contorno di leggi che minano le pre-condizioni della democrazia: stabilizzando il monopolio governativo dell´informazione televisiva, legittimando il conflitto di interessi, insidiando l´indipendenza della magistratura.
Sono in giuoco, poi, le garanzie per il regime parlamentare. C´è già ora il disprezzo di un primo ministro che rifiuta di andare in parlamento non solo per rispondere ad un cortese question time di importazione, ma perfino sull´indecifrabile destino di tremila soldati italiani, trascinati in un teatro di guerra. Il progetto consolida e legittima questa retrocessione del parlamento.
Una sovranità elettorale assoluta cancella ogni autonomia delle Assemblee rappresentative. Il rapporto a due parlamento-governo che è la vita stessa del principio parlamentare è bruciato fin dal giorno delle elezioni. La legge elettorale, si dice, deve «favorire la formazione di una maggioranza collegata al candidato alla carica di primo ministro».
Con voti bloccati, questioni di fiducia, minaccia di scioglimento la stessa maggioranza parlamentare non ha alcuna possibilità di confronto e men che meno di controllo sull´operato del governo. Quanto all´opposizione, i suoi voti sono considerati costituzionalmente appestati e non le si concede neppure il rimedio tipico delle democrazie maggioritarie: il ricorso preventivo al tribunale costituzionale almeno nei casi di sospetti abusi nel procedimento legislativo.
Nessun temperamento dunque all´attuale situazione di prevaricazione governativa. Vi è semmai il suo aggravarsi: con uno squilibrio ancor più forte a favore di una figura di primo ministro che assorbe in sé praticamente anche la rappresentanza parlamentare, cancellandone la differente identità.
È compromessa, infine, la garanzia dell´unità territoriale della Repubblica. Compromessa dall´inserimento della clausola di «esclusività» nelle competenze legislative delle regioni.
Una «esclusività» che non tocca solo i grandi sistemi unitari nazionali – la scuola, la sanità – ma si estende indefinitamente anche «ad ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato». Ora, questa «esclusività» – che è il punto di inconciliabile frattura tra il regionalismo di tutti (e non solo del centro-sinistra) e quello della Lega – è una aberrazione sia per l´ordinamento italiano sia per l´ordinamento europeo. Nell´uno e nell´altro è in contrasto, infatti, con il fondamentale principio di sussidiarietà. Un principio – imperniato sulle intese fra i differenti livelli di governo – che rende mobili e flessibili le competenze.
La competenza esclusiva, se ha un senso, creerà invece un sistema di rigide gabbie legislative nel territorio della Repubblica, di compartimenti impermeabili a principi comuni, di vere e proprie dighe alla stessa legislazione comunitaria e prevedibili ostacoli alla circolazione delle imprese e dei servizi.
D´altronde la logica della frammentazione e del separatismo lascia le sue impronte digitali. Là dove consente che per cinque anni tutte le tentazioni alla diaspora del localismo italiano trovino sfogo. Sia attraverso una sospensione delle garanzie attuali della Costituzione. Sia stabilendo che ai referendum di amputazione territoriale partecipino solo «i cittadini residenti nei comuni o nelle province di cui si propone il distacco dalla regione»…
Per tutte queste ragioni il referendum non potrà esaurisi in un semplice «no». Con esso si devono ridefinire le condizioni e i principi repubblicani per un coabitare mite in Costituzione.
Nel 1946 quando cominciò la Costituente, il fascismo era definitivamente morto. Eppure si creò una Costituzione antifascista: per cercare di evitare, sbagliando magari qualcosa in senso opposto, gli eccessi di potere di quel regime trascorso.
Forse è troppo pretendere che si ponga ora mano a regole costituzionali che mettano fine all´attuale esorbitante accumulo di poteri pubblici e privati proprio del berlusconismo. Ma è certamente impossibile accettare, dopo questa esperienza, meccanismi che concedano al berlusconismo (non ancora morto) o a qualunque altro estremismo populista, una patente costituzionale per prevaricare di più.
Ogni politica costituzionale deve partire dall´esistente e non dalle teorie. E l´esistente è questo. Non c´è Westminster né la Bbc.
Ecco perché, alla fine, questo referendum avrà logicamente una forte influenza sulle elezioni politiche del 2006. Quale che sarà la data del suo svolgimento, esso consentirà ai cittadini di valutare l´intera posta in giuoco e di riappropriarsi di valori costituzionali che si sono fatti lontani. E che, come ogni cosa lontana, rischiano di essere perduti per sempre.