Anche se c´è il congelamento, non c´è, nei referendum che ci sono stati, la fine dell´Unione. C´è qualcosa di peggio. C´è la frattura della ragione europea. Su questo dovremo interrogarci. Perché c´è una Europa furente che si rituffa nel mare dell´irrazionale dopo che ha trascorso gli ultimi sessanta anni, dal 1945, a ricostruirsi paziente come isola della ragione, distaccata da un passato di cento follie, di cento pogrom, di cento guerre civili.
Il popolo ha sempre ragione No. Il popolo di quei referendum non ha ragione.
E non solo perché ne sono uscite fratturate la comune ragione istituzionale, la comune ragione politica, la comune ragione sociale degli europei. Ma perché non una via alternativa, magari radicalmente opposta, ma generalmente comprensibile, è stata indicata.
Vediamole, queste fratture. Innanzitutto, quella tra parlamenti ed elettori referendari. A Roma il 29 ottobre 2004 i governi avevano firmato il Trattato, protetti da larghissime maggioranze parlamentari.
Nelle stesse due convenzioni europee che avevano preparato il Trattato (la prima per la Carta dei diritti, la seconda per l´intera Costituzione) il consenso delle rappresentanze dei parlamenti nazionali e di quelli europei era stato quasi unanime.
Significava questo il pieno riconoscimento del principio della rappresentanza parlamentare come metodo di razionalizzazione della domanda politica in una grande area continentale. Significava la garanzia del contraddittorio in uno spazio pubblico aperto, perdurante al di là dello scontro elettorale in ciascun paese.
Si eleggeva nelle Camere il domicilio del controllo della cittadinanza europea sul nuovo potere sovrastatuale. E, infine, si sceglieva il criterio di cooperazione interparlamentare tra parlamenti nazionali ed europeo e consigli regionali, come fondamento della vita democratica dell´intera Unione.
Tutto questo sembra non valere più.
Contro ogni logica, si è creata una rottura profonda tra le regioni del parlamentarismo e l´irrazionalità del plebiscitarismo, con referendum a ruota libera, slegati dai comportamenti della rappresentanza politica.
La seconda frattura è quella che colpisce la stessa ragione politica. L´80, il 90 per cento del consenso parlamentare può valere meno di un plebiscito E va bene: ammettiamolo allegramente, in nome del “popolo sovrano”.
Ma che ha detto quel plebiscito Jacques Le Goff, il grande medioevalista abituato e leggere e ricostruire una storia dai minimi segni, si è confessato impotente: «È un conglomerato da cui è impossibile far uscire un programma».
Il banchiere Tommaso Padoa Schioppa questa volta è bloccato da una percentuale: «La Costituzione per il 90 per cento riprende i trattati esistenti e per il 10 per cento innova: è stato un No al 90 per cento o al 10 per cento». E il pragmatico premier lussemburghese Junker si chiede: «Hanno votato insieme quelli che vogliono fermare tutto e quelli che vogliono andare più avanti: chi ha vinto».
In questa paralizzante confusione non c´è nulla di buono per l´Europa. Ma non c´è nulla di buono neppure per la concezione della politica quale sappiamo da Aristotele ai nostri giorni.
La politica come zona più alta della riflessione intellettuale: perché applicata non al destino di uno solo ma al destino di tutti. La politica come distinzione di vie alternative: e non caotico ammasso di percorsi per dire, comunque, di no. Nulla di buono, perché questi referendum hanno fatto in realtà il pieno dell´antipolitica.
Vi si possono rinvenire disagi esistenziali diffusi, paure del futuro e dell´”altro”, bovarismi all´incontrario. Motivazioni pre-politiche, dunque. Ma non c´è una sola indicazione prevalente o almeno visibile di indirizzo politico. Almeno che non sia quello della distruzione delle forme esistenti della politica: dalla rappresentanza parlamentare a quella partitica a quella delle grandi famiglie politiche europee. È ragionevole tutto questo
La terza frattura è quella che si è prodotta nella ragione sociale degli europei. Nessuna risposta è venuta infatti dal pentolone dei referendum alla grande domanda essenziale: «Vogliamo costruire un solidarietà sociale grazie all´economia di mercato o contro di essa».
Quello che si avverte è piuttosto un rumore di fondo per l´affastellamento di una nuova illusoria linea Maginot per ogni nazionalismo contro gli “alieni” (e non solo contro il loro commercio). È il no dei protezionismi, della xenofobia, degli sciovinismi, delle intolleranze. La mappa dei piccoli movimenti anti-Unione che si addensano intorno ai referendum e che in essi possono fare massa critica corrisponde esattamente al vecchio circuito della destra sanfedista europea.
È come se il torrente populista ritrovasse l´antico alveo. Ora prende i nomi del francese Le Pen, del ceko Vaclav Klaus, dell´olandese Geert Wilders, dei nostri leghisti e “spaghetti-neocon”.
Accanto a loro, purtroppo pezzi di sinistra “radicale” che, confondendo all´origine la malattia con la medicina, credono di combattere la globalizzazione e i suoi “orrori economici”, smontando l´Unione europea.
Cioè l´unica invenzione istituzionale in grado di potere contrapporre la forza di una politica sovrastatuale alla violenza della finanza senza frontiere. Questa sinistra, condividendo anche solo per un giorno gli stessi slogan e la stessa battaglia marcata dal conservatorismo sociale, se n´è fatta oggettivo strumento e ne ha subito la contaminazione.
Dappertutto la lettura corrente dei referendum antieuropei esclude infatti sbocchi a sinistra. Di essa, può scrivere, sprezzante e acuto, Yves Meny: “Ha acclimatato la xenofobia e le ha dato rispettabilità”.
Di fronte a questi smarrimenti della ragione europea si capisce perché sia iniziato il giorno degli sciacalli. La sovrastatualità europea è stata limitazione di poteri statuali che dal 1648, da Westfalia in poi, erano rimasti immutati. Ora, i peggiori ne cercano la riappropriazione in un´atmosfera di saccheggio: dall´euro alla cooperazione antirazziale.
Di fronte all´affievolimento della ragione, l´ultima difesa è quella invece di non cedere nulla, di non cedere al buio.
La difesa di quella concreta intelligenza storica europea che si è andata dipanando da cinquant´anni. E che ha dato vita a una inedita regione multistatale di eguali Stati – nazione, uniti attraverso l´unione delle loro costituzioni.
È qui che si è accumulato quel “giacimento di politica possibile” di cui ha scritto Ezio Mauro. Nessuna concessione e nessuna comprensione dunque per le motivazioni dell´irrazionale: dato che comunque ogni ammissione degli errori di funzionamento, di costruzione e di rappresentazione dell´Unione, che certo ci sono, non ha nulla a che fare con la cecità di quella spinta distruttiva.
Guardiamo perciò avanti, come ha fatto la piccola Lettonia, che ha risposto con la sua ratifica ai referendum. Come stanno facendo gli altri, con consultazioni serrate. Forse, per uno dei tanti paradossi della sua storia accidentata, l´Unione europea può ritrovare il filo della ragione persino sotto il “gelo” della presidenza inglese che sta per cominciare.
Quegli inglesi che dopo aver lottato per secoli contro ogni egemonia continentale, si sono accorti con Tony Blair che è più conveniente egemonizzare con la loro responsabilità il continente.
Forse, per una delle tante possibilità offerte da una costruzione giuridica policentrica, l´Unione che non riesce a completare la sua dimensione costituzionale, ritroverà le risorse del vecchio diritto internazionale per accordi di cooperazione tra gli Stati membri, diretti a fare tra pochi quel che non si è riuscito a fare tra tutti.
D´altra parte, in ogni zona dell´ordinamento europeo, il moto profondo dell´integrazione non si è mai arrestato, con prospettive sempre nuove.
Dall´agenzia per i diritti fondamentali a quella per l´industria della difesa, dalla programmazione di Lisbona al servizio diplomatico comune, all´agenzia delle frontiere: ogni cantiere è aperto. Non è dunque la fine dell´Unione che può preoccupare. È il ritorno in Europa dell´irrazionale europeo che fa paura.