Non già per disprezzo verso gli interlocutori ma per seguire una regola che abbiamo sempre praticato, quella di non parlare o parlare il meno possibile di noi. Dico di più: talvolta accade che le critiche che ci vengono rivolte, dedotte da una visione diversa della realtà, ci inducono a modificare l´opinione precedentemente espressa, del che, quando è accaduto, abbiamo sempre dato atto.
Sento invece il bisogno di rispondere questa volta alle parole quanto mai aspre che mi ha indirizzato lunedì scorso sul suo giornale il direttore del manifesto, Gabriele Polo, a proposito di alcune mie osservazioni sulla professionalità di Giuliana Sgrena e di Nicola Calipari. Non già perché me ne senta ferito ma per due altre ragioni: perché il manifesto ha direttamente partecipato all´intera vicenda Sgrena, dal rapimento fino alla liberazione, colloquiando con i massimi rappresentanti del governo, dello Stato, dei servizi di sicurezza, organizzando manifestazioni imponenti, lanciando messaggi ai rapitori, alle comunità musulmane, alle televisione arabe. È stato cioè parte in causa con pieno diritto di esserlo in quanto rappresentante della persona rapita. La seconda ragione sta nel fatto che le scelte prese sul terreno da Nicola Calipari fanno parte integrante dell´intera vicenda che occupa da cinque giorni il cuore e la mente dell´intera nostra comunità nazionale incidendo potentemente sui rapporti tra le diverse forze politiche nonché su quelli tra l´Italia e gli Stati Uniti.
Non si tratta dunque d´un dissenso tra diverse opinioni e rappresentazioni dei fatti, bensì di una questione molto più importante. Talmente importante che Calipari ci ha rimesso la vita e la Sgrena e l´altro ufficiale dei servizi si sono salvati per qualche centimetro dal fare la stessa fine.
C´è dunque ampia materia per tornare sulla questione, indipendentemente dagli insulti che il direttore del manifesto mi ha gratuitamente rivolto, e che voglio ascrivere alla concitazione dell´animo e alla passionalità che ne consegue.
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Ho scritto domenica scorsa a proposito del rapimento della Sgrena dal quale l´intera vicenda ha preso inizio, che era nota a tutti i giornalisti inviati a Bagdad la pericolosità di restare troppo a lungo in quel recinto dove da tempo si sono rifugiate molte centinaia di persone provenienti da Falluja. Chi ci andava per raccogliere notizie e raccontare fatti lo faceva a proprio rischio e il rischio diminuiva o aumentava in proporzione diretta al tempo di permanenza sul luogo del pericolo.
Giuliana Sgrena rimase in quel recinto per oltre quattro ore dando tempo a quanti fanno parte organica della truce industria dei sequestri di persona di preparare con agio il colpo e rapire, sotto gli occhi perfino dei guardiani della moschea che sorge entro quel recinto, la giornalista del manifesto.
Del resto lei medesima, in una pubblica dichiarazione di lunedì scorso, ha detto: «Mi sono trattenuta troppo a lungo tra i rifugiati di Falluja. L´ho fatto per riguardo verso l´imam della moschea che mi aveva fissato un appuntamento, ma è stato un errore».
Siamo dunque almeno in due a pensarla in questo modo, la Sgrena ed io.
Certo, l´errore non ha la stessa intensità della fucileria americana sulla strada dell´aeroporto, ma senza quell´errore il rapimento non ci sarebbe stato e neppure la morte di Calipari, perché l´intera sequenza comincia lì, nel recinto dei rifugiati di Falluja. È indecente ricordarlo, come ha scritto il collega Gabriele Polo? O fa parte di quelle vicende che vogliamo tutti ricostruire senza dimenticare o nascondere nessun rilevante particolare?
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Le osservazioni che riguardano le scelte sul terreno di Nicola Calipari sono appena più complesse da capire, ma non poi tanto.
Si pongono a questo punto alcune domande. Chi informò Calipari dell´obiettivo finale della sua missione? Quando e a chi furono fornite queste informazioni? Chi conosceva su quale tipo di vettura viaggiava Calipari e la sua targa? Perché Calipari non chiese d´essere scortato dai carabinieri che prestano permanente servizio all´ambasciata d´Italia a Bagdad? Chi portò all´ospedale i feriti dopo la fucileria della pattuglia americana?
Queste domande sono ancora senza risposta. Il ministro degli Esteri, nella sua relazione di ieri alla Camera dei deputati, ha risposto con i dati fino a quel momento disponibili. Abbiamo così appreso che Calipari non volle la scorta per dare il meno possibile nell´occhio e che fu lui a decidere per l´imbarco immediato anziché pernottare all´ambasciata italiana in attesa di percorrere nel far del giorno la strada da Bagdad all´aeroporto. Per quale ragione? Risposta di Fini: perché il rischio di attraversare di notte il centro di Bagdad era altrettanto elevato che quello di inoltrarsi verso l´aeroporto.
Può darsi che i rischi si equivalessero. Ma ancora una volta, per attraversare il centro di Bagdad non si poteva chiedere la scorta all´ambasciata italiana?
Questa domanda, che è il punto chiave dell´intera vicenda, è tuttora inevasa e non dipende dall´inchiesta promessa dall´amministrazione Usa; dipende invece esclusivamente dall´aiutante di Calipari a bordo della vettura con lui, dal capo del servizio di sicurezza, Pollari, e dal sottosegretario Gianni Letta, suo referente politico con delega di pieni poteri.
Quello che mi sembra certo è che Calipari non si fidava dell´”intelligence” Usa; probabilmente non voleva che gli agenti dell´intelligence americana avessero modo di interrogarlo e lo sottoponessero a domande sui sequestratori, sulle modalità e il luogo del sequestro e della liberazione e sul tema del riscatto pagato.
Voglio qui ricordare che un problema analogo si pose all´intelligence francese in occasione del rapimento di due giornalisti di quel paese. Anche allora l´intelligence Usa si mise di traverso e la liberazione di quegli ostaggi, già pronta e in procinto di essere effettuata dopo venti giorni dal rapimento, ebbe luogo dopo altri due mesi, provocando una vera e propria crisi diplomatica tra l´Eliseo e l´amministrazione Usa, di cui si ebbe notizia sulla stampa internazionale e anche italiana. La differenza tra i due casi consiste nel fatto che agli occhi dell´amministrazione Usa l´Italia è un alleato fedele e volenteroso con truppe in Iraq, mentre la Francia non ha mai mandato neppure un soldato né un euro in quel paese. Ciononostante il contrasto tra l´intelligence Usa e quelle europee si è avuto in entrambi i casi e allo stesso livello di intensità.
Il nocciolo della questione è dunque questo: gli Usa sono decisi a impedire l´industria dei sequestri e il pagamento dei riscatti, mentre le intelligence europee praticano questo metodo sistematicamente. Questa diversa strategia è stata presente in ogni momento a Calipari, a Pollari, a Letta. Di qui le loro decisioni operative, di qui alcuni loro gravi errori, di qui la morte di Calipari che ha comunque ben meritato la riconoscenza della nazione.
Riconoscere alcuni errori che può aver commesso non toglie nulla alla sua generosità, al suo coraggio e all´onore che gli dobbiamo.