Due testamenti storici molto diversi segneranno stamane l’ultimo addio a Giovanni Paolo II. Ci sarà l’emozione planetaria che il Papa polacco ha saputo suscitare, e la presenza di moltissimi Potenti della terra suggellerà nel modo più esplicito l’universalismo della sua lunga missione pastorale.
Ma ci saranno anche, in Piazza San Pietro, due muri invisibili eppure non abbattuti: l’assenza del presidente russo Putin e la mancanza totale di una delegazione cinese. La cronaca politica rende le due diserzioni non troppo difficili da comprendere.
Putin, se avesse ceduto al suo probabile desiderio di partecipare come gli altri Grandi, avrebbe mostrato di non tenere in conto la freddezza che ancora divide Santa Sede e ortodossi russi.
Mentre attorno al Cremlino l’agitazione politica cresce di giorno in giorno, non era il caso di aprire un nuovo fronte. Più semplice e brutale il calcolo della Cina: avete invitato per la prima volta il presidente di Taiwan, dunque noi non possiamo esserci.
Nulla più di una speranza svanita e di un incidente diplomatico, se Giovanni Paolo II non fosse stato quello che è stato. Se non avesse grandemente contribuito a distruggere il Muro di Berlino, occupandosi poi di assicurare un atterraggio morbido ai suoi detriti.
Se non avesse speso tutto se stesso e tutta la sua capacità di sofferenza nel tenace inseguimento delle nuove frontiere evangeliche, nella predilezione per i terreni minati, nella ferrea volontà di perseguire l’unificazione dell’Europa nel cristianesimo e l’ampliamento del dialogo religioso proprio là dove il potere politico lo rifiutava.
Per questa sua visione di un mondo pacifico, e non certo per voglia di protagonismo mediatico come può aver ritenuto qualche confuso osservatore, Giovanni Paolo II aveva posto un viaggio in Russia e un viaggio in Cina al culmine dei suoi desideri.
Già da molti mesi, anzi da anni, si era capito che non ce l’avrebbe fatta. Ma l’assenza parziale dei russi e quella totale dei cinesi, ora che è giunta l’ora dell’ultimo saluto, sembrano davvero una immeritata crudeltà della storia.
E diventano anche, inevitabilmente, la più difficile eredità del prossimo Papa. Si mostrerà più disponibile, la gerarchia ortodossa russa, nei confronti di un Pontefice verosimilmente non slavo?
Sarà addolcita l’accusa di «proselitismo » promosso dal Vaticano sulle ceneri dell’Urss, sarà dimenticata la «sfida» del 2002 quando la Santa Sede creò in Russia quattro diocesi guidate da vescovi, diventerà forse gradita l’icona della Madonna di Kazan alla cui restituzione Giovanni Paolo II aveva affidato lo scorso anno un messaggio distensivo?
E Vladimir Putin vorrà e potrà incoraggiare nei fatti quel che auspica a parole? Mosca non è una meta facile ma è certo la meta più vicina, tanto vicina da essere apparsa per qualche tempo a portata di disgelo.
Ma il successore di Giovanni Paolo II è atteso anche dall’altra prova, quella cinese, molto più lontana eppure in teoria molto più semplice. Per favorire la svolta, si affanna a spiegare Pechino, basterebbe che la Santa Sede rompesse i rapporti con Taiwan e li allacciasse con la Cina. Come hanno fatto, qualora servissero precedenti, tutti i Paesi europei.
Ma può il capo della Chiesa cattolica comportarsi come un qualunque capo di Stato o di governo, potrà il nuovo Papa cedere all’ingiunzione di Pechino dimenticando che milioni di cattolici cinesi sono inquadrati politicamente nella tollerata «chiesa patriottica» mentre per gli altri vige ancora la clandestinità?
La Storia non è finita nemmeno in Vaticano. Ma per ora possiamo soltanto lamentare che tra tanti rimpianti Giovanni Paolo II debba fare i conti per l’ultima volta anche con i «suoi» due muri.