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22 Aprile 2005

Le anomalie della crisi

Autore: Pasquale Cascella
Fonte: l'Unità

Consegnate le dimissioni al Quirinale, l’altra sera, Silvio Berlusconi era andato in giro a espletare le residue, e non meno mortificanti, formalità istituzionali della crisi chiedendo ai suoi interlocutori se fossero «finalmente soddisfatti». Ventiquattro ore dopo è il premier a prendersi, a sua volta, la «bella soddisfazione» di mostrarsi in giro per la capitale rendendo plateale lo sprezzo per quegli inutili «riti della politica politicante» che lo costringono solo a perdere tempo. Inaudito: il capo dello Stato si applica scrupolosamente nelle consultazioni sulla formazione del nuovo governo, e il premier si proclama già pronto, con la lista del nuovo governo in tasca, a dare «continuità» ai 1410 giorni di durata del suo primo governo di questa legislatura. Un «record» vantato come «incancellabile», e comunque da «onorare» con lo sbocco della crisi «più veloce della storia». Qual è l’anomalia In effetti, l’unico precedente tra i presidenti incaricati dal capo dello Stato insofferenti alla canonica riserva è proprio Berlusconi. Già nel 2001 innovò la procedura di accettazione dell’incarico di formare il governo con una formula equivoca per avvalorare il teorema del «mandato diretto» degli elettori. Figuriamoci se ora non sta pensando a liquidare la riserva, per scodellare seduta stante il bis oggi o domani (quando, insomma, il presidente della Repubblica avrà svolto le sue consultazioni «nei tempi ritenuti congrui»), per tenere fede al lamento levato al Senato, correo il presidente Marcello Pera, sui lacci e lacciuoli della Costituzione in vigore. Testualmente: «Non consente al premier, eletto direttamente dal popolo, di adeguare la squadra di governo ogni volta che si presenta la necessità sotto la sua diretta responsabilità, senza lunghe ed estenuanti crisi politiche e verifiche parlamentari, come si fa nelle più avanzate democrazie occidentali».
Più plateale non avrebbe potuto essere il disprezzo delle regole, del resto manifestato dal premier sin dall’inizio della legislatura. Sarà stato anche il più longevo della storia repubblicana, ma quello di Berlusconi è anche il governo più rimpastato delle democrazie liberali. Tra dimissioni e cambi di ministri e sottosegretari il suo assetto ha già subìto 19 modifiche. Record dei record, ma questa anomalia – guarda caso – è oscurata dal premier. Non c’è alcun manuale Cencelli della prima Repubblica che contempli la sostituzione di quattro ministri degli Esteri nello stesso gabinetto. O il ripescaggio di potenti ministri costretti al licenziamento, come è già accaduto a Claudio Scajola dagli Interni al Programma, e pare doversi ripetere con Giulio Tremonti, già trombato all’Economia, nel nuovo governo. Quello che Berlusconi avrebbe voluto, al più, rimpastare. E che, una volta costretto al bis, è intenzionato ugualmente a tirare dalla fotocopiatrice. Essendo dimissionario, ma convinto di subire un sopruso, il premier ha occupato un po’ del tempo d’attesa come commesso, convinto che basti non mollare la presa sui bottoni di oggi per rilegittimare il comando alla fine della legislatura. Bastava sentirlo, nella passeggiata serale di ieri: «Chi sarà il candidato premier nel 2006 Il leader del partito più importante della coalizione». Si va al Berlusconi bis, ma se pure generalmente le riproduzioni risultano peggiori degli originali, il governo-fotocopia predisposto da Berlusconi sconta in partenza alterazioni altrettanto da record. Per dire, i vice presidenti del Consiglio si riducono in qualità politica, con il venir meno della disponibilità di Marco Follini a tornare al terzo piano di palazzo Chigi, ma si moltiplicano quantitativamente macchiando irrimediabilmente il «nuovo programma». C’è di più, e di peggio: la smania di esorcizzare il contenzioso sulla «discontinuità» scarica direttamente sul capo dello Stato l’incombenza di verificare la «natura» del mandato preteso dal premier dimissionario. Ed è, evidentemente, per far valere le ragioni politiche dello strappo del ritiro dei ministri, comprensivo delle sue stesse dimissioni, che Follini si è fatto legittimare dall’ufficio politico dell’Udc a comunicare direttamente al presidente della Repubblica, nelle consultazioni preventive al conferimento dell’incarico, di voler restare fuori dal «Berlusconi bis». Una anomalia anche questa Fino a un certo punto, perché Follini ha riaffermato che il potere di nomina dei ministri resta, volente o nolente Berlusconi, pur sempre nelle mani di Carlo Azeglio Ciampi. Un modo indiretto per restituire lo schiaffo ricevuto dal premier con il rifiuto-bis di aprire una vera verifica politica. Sia sul nodo cruciale dell’identità della coalizione, perigliosamente piegata sull’«asse del Nord»; sia sulla controversia interpretativa dello stesso mandato ricevuto dal leader nelle elezioni del 2001, da Berlusconi spacciato come personale, quindi plebiscitario, invece che espressione di una coalizione. È, a ben guardare, la stessa anomalia precedentemente segnalata da Pierferdinando Casini al Quirinale, rompendo la consuetudine (non la regola, giacché già con Carlo Scognamiglio, guarda caso nel ‘94, si era registrata l’eccezione) che vuole i presidente delle Camere silenziosi all’uscita delle consultazioni. È difficile credere che Casini abbia compiuto un torto a Ciampi per fare un favore a Follini. Semmai avvertendo che, non essendovi «alcuno spazio per governi tecnici o istituzionali», l’alternativa diventa secca, tra la ricostituzione dei vincoli fiduciari della maggioranza o il ricorso anticipato alle urne, è da presumere che il vertice istituzionale voglia prendere preventivamente le distanze dal guazzabuglio del governicchio-fotocopia. Berlusconi lo pretende E sia. Ma solo per restare leader di una crisi permanente.