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24 Maggio 2005

L’avvocato e il suo cliente

Autore: Giuseppe D'Avanzo
Fonte: La Repubblica

Una sentenza pessima. Per tutti, se si esclude Berlusconi. Pessima per Previti che comincia ad assumere le sembianze di un capro espiatorio. Pessima per la credibilità della magistratura. Soprattutto pessima per il cittadino. Naturalmente si dà qui per indiscussa la correttezza dei giudici e indiscutibile la loro sapienza giuridica. Come non è solo rituale la cautela che pur bisogna rispettare in attesa delle motivazioni della sentenza. Ma già da ora si può comprendere qualcosa (o quel che conta) di quanto è avvenuto nell’appello di Milano.

Innanzitutto il metodo applicato dai decisori. A occhio, metodo pessimo anch’esso. Il processo, come tutti sanno, è indiziario. C’è molto denaro che si muove dai conti della famiglia Rovelli e di Silvio Berlusconi ai due mediatori, Cesare Previti e Attilio Pacifico. Poi, dai mediatori ai giudici di Roma. Il passaggio di denaro è documentale. Difficile occultarlo o negarlo. È il prezzo delle sentenze Imi-Sir e Lodo Mondadori Se si esclude un correo linguacciuto (e qui non appare), non c’è mai impronta digitale o documento a sostenere la corruzione. Per dire "corruzione", bisogna muovere "al contrario": accertare

che non ci siano altre legittime ragioni economiche o d’affari tra Previti, Pacifici e le toghe sospette. Gli imputati ne propongono qualcuna. Sono parcelle professionali, sostiene ad esempio Previti. Non riesce, però, a produrre un solo documento processuale che porta la sua firma: un atto di citazione, una comparsa di risposta, una memoria conclusiva, un parere giuridico, un atto di transazione; come non esiste una fattura, una ricevuta informale, un estratto dei libri contabili di Fininvest. Le mosse della difesa cadono dunque nel vuoto,

ma non mutano il segno indiziario del processo. Per valutare la "forza" degli indizi occorre esaminarli nella loro pluralità. Tutti insieme devono essere (lo chiede il legislatore) «gravi, precisi e concordanti». È il lavoro che spetta ai giudici. A Milano si muovono sghembi. Non valutano l’arco degli indizi, ma ne segmentano la molteplicità, ne spezzettano la pluralità, ne sminuzzano il percorso. È un’antica pratica solitamente favorevole alle ragioni degli imputati. Se separo un fatto da un altro, ne svaluto la deduzione che vuole provarne la conseguenza logica e la relazione in termini di probabilità. Con un quadro

probatorio diventato così molto fluido, il giudice è più potente. Può combinare ora l’equazione come vuole attribuendo o negando l’inferenza tra due fatti. Quel che salta fuori a Milano è una scena che lascia svanire qualche figura logica fino ad umiliare il buon senso.

C’è un grande avvocato, Cesare Previti. È un po’ misterioso. Quasi un’ombra per tribunali, giudici, studi legali, ordine professionale. Ha un solo grande cliente: Silvio Berlusconi. he poi significa Fininvest e Mediaset. L’avvocato ha vantaggiose consonanze con alcuni giudici. Teste fini e influenti come Renato Squillante e Vittorio Metta. Rapporti così eccellenti da consentire all’avvocato di proporre ai giudici, in cambio di molto denaro, il baratto di qualche sentenza. L’unico cliente dell’avvocato ha molti guai con la giustizia.

Anzi, è nelle aule dei tribunali che costruisce e difende la nascita e la prosperità del suo impero mediatico (dalle "antenne selvagge" all’acquisizione del maggior gruppo editoriale italiano, Mondadori). Ma l’avvocato misterioso non muove mai gli alfieri del suo sistema corruttivo per favorire il suo solo prezioso cliente. Lo fa per la famiglia Rovelli alle prese con l’indennizzo multimiliardario (1000 miliardi di lire) dell’affare Sir. Il lavoretto di Previti è una tantum, a gettone, a cottimo, si può dire. Questo è il responso dei giudici dell’appello. Consente di segnalare qualche certezza e una domanda, in attesa del giudizio della Cassazione. Prima certezza. Silvio Berlusconi, anche se in passato "manipola" qualche giudice quando ancora non esiste il reato di "corruzione giudiziaria", non costruisce la fortuna delle sue imprese con la corruzione. È vero, avrebbe potuto utilizzare la lobby del suo avvocato romano per addomesticare l’esito di qualche litigio. Non cede alla tentazione. Come, nel caso della Mondadori, non cede il suo avvocato romano nell’interesse della Fininvest.

Al processo di Milano si chiedeva di dire se Cesare Previti fosse un corruttore di giudici. Anche qui, una certezza. Previti è un corruttore. Mai per gli affari del suo unico cliente, attenzione. Soltanto per le fortune dei Rovelli.

C’è ancora un altro responso nel dibattimento milanese. Chiama in causa la magistratura italiana per il passato e per il futuro. Qual è stato, in passato, nella Capitale, il grado di tenuta dell’imparzialità della giurisdizione, ovvero di uno dei gangli vitali di un moderno sistema democratico? È stata una burla, conferma il verdetto. Le sentenze a Roma si potevano comprare e vendere. Una "giustizia a uso privato", prigioniera di una inconfessabile rete di relazioni tra avvocati d’affari e toghe. Fin qui, l’appello di Milano. Le motivazioni, se coerenti e ragionevoli, ci diranno anche se la magistratura nel presente non ha sofferto le opprimenti pressioni a cui è stata sottoposta dal potere politico. O se questa sentenza pessima, perché contraddittoria e ballerina, è l’esito più oscuro di quella violenza che all’ordine giudiziario non ha risparmiato nulla né campagne di pubblico discredito né minacce istituzionali né riforme umilianti. Al fondo di questa vicenda, è infatti una domanda decisiva, urgente: la magistratura è in grado di difendere, con autonomia e indipendenza, il precetto costituzionale dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge? Quanto, nella decisione, contano le persone, il nome delle persone, il loro status e prestigio? Quanto le mosse nel processo? Quanto i fatti (come stiano le cose)?L’imbarazzata sensazione che sollecita la sentenza di Milano è oggi la conferma, ammesso che ci fosse bisogno di una conferma, che il giudice «respira anche lui l’aria dell’ambiente e la patisce». Come è già accaduto nel passato, si punisce con un micidiale effetto selettivo sempre chi, sconfitto nella contesa sociale e politica, appare più vulnerabile. Lo si può dire di Cesare Previti. È palesemente l’"uomo di mano" negli affari corruttivi che ruotano intorno a Berlusconi (che gode in un altro processo di prescrizione per corruzione semplice). L’indagine non va alle sue spalle, si ferma alla sua faccia. 

Se si rifiuta di vedere il legame con l’autorevole sodale, Previti è spinto dall’ombra al proscenio, solo e con in mano tutte le carte infette. Soccombe allora e deve sopportare da solo l’operazione liquidatoria. Lo puniscono con severità (addirittura un anno in più del giudice corrotto). Non gli si concedono le attenuanti assegnate ripetutamente all’altro che gli è alle spalle (Berlusconi) e, con queste, il vantaggio della prescrizione del reato. A meno che nei prossimi mesi, non ci pensi la Cassazione.