24 Marzo 2006
L’apocalisse elettorale
Autore: Pierluigi Battista
Fonte: Corriere della Sera
Sembrava che, nelle coscienze di tutti, si fosse dissolto lo spettro di una competizione elettorale vissuta come una guerra civile simulata. Sembrava.
Ma l’atmosfera intossicata che si respira a quindici giorni dal voto dimostra quanto sia ancora tenace in Italia la distorsione apocalittica della lotta politica.
Si poteva sperare che l’alternanza democratica tra schieramenti contrapposti fosse finalmente stata interiorizzata come evento normale, fisiologico, non traumatico. Purtroppo non è così.
Prevale l’allarme, l’isteria, il clima da scontro finale e catastrofico che terrorizza chi è destinato a perdere (guai ai vinti): mentre chi perde, in una democrazia matura, dovrebbe solo creare le condizioni per potersi riscattare alle elezioni successive, come avviene in tutto l’Occidente democratico.
Invece gli Usa diramano una nota (di paternità non proprio certa) in cui si dà l’allerta per eventuali violenze che potrebbero devastare e insanguinare l’Italia alla vigilia del voto.
Così si alimenta obliquamente un «clima d’angoscia» collettiva, ha osservato Romano Prodi. Ma l’angoscia è già una presenza palpabile e incombente in questa sgangherata campagna elettorale.
Il presidente del Consiglio rovescia un topos solitamente diretto contro la sua persona, e proclama lo stato di «emergenza democratica». Si disegna lo scenario disastroso e dal sapore sudamericano di capitali in fuga preventiva dall’Italia nelle mani del centrosinistra (forse) trionfante.
Si alimenta un clima da ultima spiaggia della democrazia. Si deformano fino alla caricatura le tesi degli avversari in materia sociale ed economica. Si evoca il fantasma del grande complotto, l’incubo di una catena di poteri che agisce nell’ombra per vessare in modo definitivo la metà dell’Italia soccombente alle elezioni.
Prodi sostiene che c’è una «strategia» e che lo scopo di questa strategia è di incendiare nel parossismo allarmistico la transizione a un nuova maggioranza politica.
Tuttavia, se si tratta di una «strategia», stupisce che nel centrosinistra alberghi la tentazione tanto potente (ed evidentemente non condivisa dal candidato premier) di cadere nelle reti strategiche dell’avversario.
Non sembra ad esempio cosa avveduta minimizzare sugli assalti della piazza estremista alle manifestazioni di Forza Italia.
O sorvolare sulle parole estreme di un leader come Diliberto, che accusa gli avversari di avere le mani «grondanti di sangue».
O non arginare la mistica della «mobilitazione antifascista» con cui i gruppi a sinistra della sinistra giustificano una prassi della violenza come non si vedeva da anni. O minacciare rappresaglie severe ai danni dello sconfitto, da colpire con vendicativi provvedimenti ad personam.
O addirittura rischiare la delegittimazione di un atto solenne del capo dello Stato, sprofondando nella polemica postuma contro il «mercenario» Quattrocchi.
O dipingere il «caimano» come il responsabile di un trama golpista, diretta a impedire con la violenza aperta la prevalenza dei «veri» democratici.
Adesso bisogna dimostrare che la guerra civile (sia pure a bassa intensità) non è la maledizione che imprigiona l’Italia in un destino che sembrava esorcizzato per sempre.
Dimostrare, soprattutto, che l’esperienza dell’alternanza democratica di questi dieci anni e oltre non è stata vana ma ha inciso nella mentalità collettiva con una forza maggiore dei richiami della foresta. E che la normalità democratica non sia più, finalmente, una chimera irraggiungibile.