Per un cittadino che volesse avere lo sguardo di Candide, e come nel
racconto di Voltaire vedere le cose come stanno veramente e non come
dovrebbero stare, quello che abbiamo davanti ha un sapore ben conosciuto.
Vien chiamato Bancopoli invece di Tangentopoli, ma il disastro è lo stesso e
i danni che procura sono in ambedue i casi ingenti.
È il disastro della
politica che s’intreccia con gli affari, per di più loschi.
È il disastro di
esponenti della classe dirigente che hanno ignorato norme basilari della
buona condotta, e ignorandole hanno perso il senso della realtà, e perdendo
il senso della realtà hanno smarrito l’etica.
Giacché questa è la miscela
che genera ricorrenti scandali in Italia: l’analfabetismo morale,
l’indifferenza a quel che il mondo reale dei cittadini pensa dei propri
dirigenti, l’esistenza di piccole cricche esoteriche dove il senso etico
degenera perché gli iniziati si abituano a darsi ragione gli uni con gli
altri, a non criticarsi mai, a giudicarsi non solo infallibili ma invisibili
e insomma non punibili.
Parliamo di classi dirigenti inadempienti perché tra esse non ci sono solo
governo e Banca d’Italia: ci sono partiti, banche, governanti, e
opposizione. Candide vedeva un terremoto perché ne sentiva gli effetti (gli
cadevano addosso case), laddove il dotto professor Pangloss non scorgeva che
trascurabili incidenti in una storia che andava provvidenzialmente verso il
meglio.
Così ragionano oggi molti dirigenti, negando ogni somiglianza con
Tangentopoli. Bersani, dei Ds, dice addirittura che «la storia non torna mai
indietro»: non si sa da dove prenda questa sicurezza granitica,
panglossiana, un po’ comunista, e molto astuta.
Lo stesso Bersani dice di
sognare «un’Italia dove non ci siano pregiudizi».
Il pregiudizio è vocabolo che vale la pena esaminare ogni volta da capo, se
si vuol agir bene e non cadere nell’arrogante ignoranza della buona
condotta.
Il Devoto spiega che è un’opinione preconcetta, capace di fare
assumere atteggiamenti ingiusti nel giudizio e nei rapporti sociali.
Ma in
alcune circostanze il pregiudizio è moralmente benvenuto: non è male esser
pregiudizialmente contrari alle ruberie, all’impunità, alla mescolanza tra
interessi propri e altrui, al potere gestito senza controllo fino al momento
in cui la legge «ci becca».
Il Decalogo è colmo di pregiudizi, e quella che
Kant chiama «legge morale interiore» (o legge morale a priori) non è meno
pre-giudiziale.
Questo restare impantanati nella corruttela dei costumi ha molte radici, e
tra esse c’è anche il fastidio che tanti, a intervalli regolari, provano
verso alcune forme etiche di pre-giudizio.
È uno strano fastidio, che tende
a privilegiare quel che è utile per sé su quel che, essendo utile per tutti,
diventa universalmente stimabile e onesto.
È un non voler essere disturbati,
scomodati, in chi è soverchiato dall’ansia di salire ai piani alti e vuol
affermare non la forza individuale d’un carattere, ma uno statuto di
provenienza: nei piani alti, immaginano costoro, si comanda veramente, c’è
vera ricchezza, e «non usa farsi scrupoli».
Non solo in Italia sono figure
ricorrenti, e spesso il loro giudizio negativo sui piani nobili non è
inappropriato: di recente ci fu Craxi, poi Berlusconi, e poi quella parte
dei Ds che s’è proposta di prendere il posto di Craxi e forse è stata
contaminata da Berlusconi.
Non senza argomenti alcuni denunciano una sorta
d’inciucio ambulante, di bicamerale delle finanze, che sulle ansie
d’inferiorità s’è andato edificando.
In genere queste ansie si nutrono di tre passioni: il ressentiment di chi
fin qui non ha avuto e vuol di corsa rifarsi, un certo gusto sacrilego della
spregiudicatezza (gusto cinico cui vien dato il nome eufemistico di
modernità), e la polemica contro i poteri forti, detti non fortuitamente
piani nobili.
Tra le cose che più impressionano, oggi, è la somiglianza del
linguaggio impiegato in materia da Berlusconi, D’Alema, e uomini di Fazio.
Tutti inveiscono contro i poteri forti, i salotti buoni. È quello che ha
spinto D’Alema a parlare di razzismo contro la scalata Unipol e contro i Ds
che si son fatti paladini della scalata senza ascoltare i consigli di chi al
mondo delle cooperative è in fondo più vicino (la Cgil).
Il progettone che
avevano in mente i furbetti del quartierino – nelle simultanee e concordate
scalate di Antonveneta, Corriere, Bnl – era proprio di superare questi
pregiudizi ritenuti antiquati.
Nella Roma antica si parlava di homines novi, e ce n’erano di ottimi come
Cicerone. Nelle democratiche e mobili società odierne quasi tutti sono
homines novi, e molti sono ottimi anche qui. Ma quando non sono ottimi, è la
molla mimetica che in essi prevale: vogliono divenire spregiudicati tra gli
spregiudicati.
È la ragione per cui Arturo Parisi sollevò con preveggenza la
questione morale, in estate, quando disse che «il vero virus è ed è stato il
conflitto di interessi alla Berlusconi. Dobbiamo assolutamente evitare di
esserne in qualche modo contagiati tutti. (…) Guai se la gente pensasse
che ci stiamo acconciando all’”una volta per uno non fa male a nessuno”»
(Corriere della Sera, 4-8-05).
Questo rischio di contagio esiste, così come esiste il rischio che l’Italia
continui a difettare di anticorpi, capaci di espellere i virus prima che
magistratura e stampa si mettano a riportar ordine usurpando le funzioni di
politici e Banca d’Italia, di imprenditori e banche (lo spiega bene
Alessandro Profumo dell’Unicredit, in un’intervista a La Stampa del 16-12).
Sono pericoli che l’opposizione difficilmente può trascurare, se non vuole
che i cittadini disertino le urne ritenendo tutti i politici disonesti. E
dentro l’Unione una responsabilità speciale spetta ai Ds, che più si sono
sbilanciati nella difesa di uno degli scalatori indagati (Consorte
dell’Unipol): spetta non a questo o quel diessino, ma a chi li rappresenta
tutti e cioè al segretario generale Fassino.
Sylos Labini aveva visto
giusto: «Quelle scalate, pur se lecite, sono semplicemente deleterie per
l’immagine dei Ds»; chi le avversa «convinca i suoi colleghi politici che è
per il bene loro, anche se non immediato, e per il bene di tutti, prendere
distanze ampie e convincenti; altrimenti politicamente si squalificano,
aumenterà la sfiducia degli elettori verso tutti i politici, e crescerà a
vista d’occhio il partito, già maggioritario, dei non votanti».
Ma non ci
sono solo i Ds: il danno che incombe è ancor più grande, ed è linguistico
oltre che politico. L’indifferenza e l’ignoranza delle regole di buona
condotta hanno contaminato un intero vocabolario, che era nobile e utile per
la sinistra e l’Italia.
Hanno d’un tratto sporcato parole che restano
preziose se adoperate appropriatamente, come riformismo o moderatismo o
spirito bipartisan.
Ogni volta che i riformisti volevano esser
spregiudicati, hanno finito infatti con l’accettare le corruzioni senza
fiatare. Ogni volta che lo spirito bipartisan avveniva all’infuori della
morale, si tramutava in inciucio anziché in opinione condivisa.
È avvenuto
in tal modo che uno schieramento eteroclito abbia a lungo difeso Fazio con
slogan analoghi sui poteri forti: uno schieramento che va dal senatore
Grillo al Riformista, da Berlusconi alla Lega e al sito dalemiano Left Wing,
su cui Fabio Martini ha scritto martedì su La Stampa (leggiamo su Left
Wing.it: «Fazio ricorda gli ultimi mesi di Yasser Arafat. Prigioniero nel
suo ufficio, circondato dall’esercito nemico e minacciato di espulsione a
intervalli regolari. Antonio Fazio oggi è circondato da una sorta di cordone
sanitario dell’insolenza»).
Un altro elemento che accomuna Tangentopoli e Bancopoli è la diffidenza
verso magistrati e stampa che fanno luce sul legame tra politica, Banca
d’Italia, malaffare, scalate.
Anche qui, il fastidio di chi non tollera
d’esser scomodato ingenera singolari complicità e affligge certe ali
riformiste (non la Margherita, non Prodi o Amato) indebolendole nei rapporti
con le ali più radicali.
Se Berlusconi parla di massacro mediatico, Fassino
parla di «devastante polverone che una parte della stampa ha voluto
sollevare»: dove quel che devasta non sembrano essere le disonestà, ma il
dito puntato su disonestà e falsi riformisti di sinistra.
In realtà questa parte dei ds è assai poco riformista, e forse l’aggettivo
andrebbe da oggi usato in maniera più selettiva.
Questa parte dei ds (da cui
il vertice non prende le distanze per malintesa fierezza di partito o per
debolezza nei rapporti di potere interno, confondendo responsabilità
personali e partitiche) si comporta nel modo seguente dopo la fine del
sovietismo: è come se volesse far propria, ma traducendola in positivo,
l’immagine che Marx si faceva dell’economia di mercato – un’economia che
solo nell’800 vien ribattezzata capitalismo.
Per Marx il capitalismo era
vorace, distruttivo anziché creativo, cinico, senza regole, deciso a
trasformare i poteri statali in comitati che si limitano ad «amministrare
gli affari comuni dell’intera classe borghese» (Il Manifesto).
È il
capitalismo che molti falsi riformisti oggi difendono. Per costoro sono poco
importanti la reputazione e la stima che il mondo esterno ha delle nostre
condotte.
Sognano appunto un mondo senza pregiudizi, scambiandolo per
moderno. Sono smagati e filosoficamente accorti, avendo alla spalle
un’immane strage delle illusioni (la propria).
È quello che Giacomo Leopardi
temeva di più, nel suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi
degl’italiani. Sono talmente smagati e disillusi, gli italiani, sono
talmente intelligenti, che dal massacro delle illusioni e dell’immaginazione
hanno appreso la peggiore condotta: il cinismo, l’indifferenza etica,
l’egoismo, il disprezzo dell’opinione altrui e di quel che forma la
reputazione.
Per Leopardi, è il motivo per cui la vita in Italia («dunque
l’azione») è senza prospettive: senza prospettiva di una miglior sorte
futura, senza occupazione, senza scopo, e ristretta al solo presente.