1 Dicembre 2005
L’amianto ideologico
Autore: Giulio Anselmi
Fonte: La Stampa
LA Tav, che dovrebbe collegarci velocemente all’Europa, rischia di diventare una delle linee di frattura nella cui costruzione noi italiani siamo maestri.
Si fronteggiano due fazioni sempre più irrimediabilmente contrapposte: da una parte i fautori dell’alta velocità ferroviaria, divenuta simbolo di modernità e metafora stessa dello sviluppo, dall’altra i difensori dell’esistente, barricati a difesa della valle di Susa.
Intervenendo contro l’«isolamento» dell’Italia rispetto alle grandi reti continentali, il presidente Ciampi ha dato al caso del tunnel di Venaus, che dovrebbe rendere possibile l’attraversamento delle Alpi, pieno rilievo nazionale.
Ma al tempo stesso, per i toni usati e le parole pronunciate, ha sollecitato una mediazione che tenga presenti i due aspetti essenziali del confronto: «Non possiamo permetterci di essere tagliati fuori… dobbiamo usare i progressi delle tecnologie e delle conoscenze scientifiche per garantire la tutela dell’ambiente».
La soluzione del problema non è semplicissima: una galleria di 54 chilometri comporta costi stratosferici, un lungo impegno temporale, difficoltà per lo smaltimento dei milioni di metri cubi del materiale di scavo.
L’Ue, che si accolla due miliardi di euro di spesa, preme perché si decida in fretta, minacciando di dirottare altrove i finanziamenti.
Voci sulla presenza di vene di amianto nel terreno interessato ai lavori si sono dilatate fino ad assumere la dimensione di una nuvola già inquinante.
I fondamentalisti della tutela dell’ambiente hanno incendiato gli animi, diffondendo la paura.
I poteri politici locali sono stati malaccorti o distratti, accontentandosi di fornire informazioni ai sindaci, ma senza riuscire a comunicare efficacemente, rassicurandoli, con la gran massa dei cittadini.
Il ministro per i Rapporti col Parlamento Giovanardi ha rispolverato la parola «competitività», che sembrava dimenticata dal governo assieme ai provvedimenti per rilanciarla, e ha addossato all’eventuale rinuncia al traforo una crisi irreversibile e la mancata crescita del Paese.
Anche se è un errore affrontare la questione della galleria nei termini ultimativi di apertura o chiusura al resto del continente (sono in fase molto avanzata i lavori per il traforo del Gottardo, che interessano in particolare il Milanese) è indubbio che, soprattutto per Torino e gran parte del Piemonte, la nuova grande via di collegamento sarebbe di straordinario interesse.
Occorre, quindi, realizzarla in un quadro macroeconomico che coinvolge più Stati, connettendosi al famoso corridoio 5.
E occorre farlo in fretta per evitare l’ingorgo: nella macroregione che i leghisti chiamano Padania si movimenta il 65 per cento delle merci e si produce il 56 per cento del Pil italiano.
D’altra parte i valsusini hanno il pieno diritto di esigere garanzie certe sulla loro salute, indicazioni precise sui tempi e sui costi, dimostrazioni chiare dei vantaggi portati dalla nuova ferrovia in termini di riduzione del traffico dei tir sull’autostrada e dell’inquinamento.
La tensione di questi giorni non è sfociata, per fortuna, in episodi gravi. E va dato atto alla presidente del Piemonte e al sindaco di Torino che, mentre molti politici nazionali del loro schieramento cercavano di svicolare, hanno assunto una posizione chiara: l’opera si farà, con un’attenta verifica delle condizioni operative.
Per superare i permanenti elementi di incertezza non c’è altro da fare che ricorrere alle tecnologie capaci di sciogliere i nodi.
Poiché i dubbi sono suscettibili di verifica, un sano pragmatismo consiglia di superare l’animosità che contrappone i «no tav» ai «tav a ogni costo», rinunciando a ogni opposizione ai carotaggi.
Se occorrerà spostare gli scavi, lo si farà. Ma è insensata una resistenza tanto assoluta da rifiutare addirittura di controllare l’esistenza dei pericoli sui quali afferma di fondarsi.
Diffuse animosità e ricordi di fatti terroristici nella zona interessata ai lavori suggeriscono particolare cautela, alla vigilia delle Olimpiadi.
Il problema più grave però è la diffusa tentazione di fare assurgere lo scontro in Val di Susa a un livello simbolico, attribuendo un ruolo profetico a qualcuno dei protagonisti.
Ma in Valle, come nell’intero Paese, non c’è alcun bisogno di profeti e neppure di strumentalizzazioni ideologiche.
Si discuta sui numeri, sui tempi, sui minerali, però si abbandonino i ricorrenti spiriti di crociata. Ricordate l’en plein compiuto con la battaglia sul nucleare?
Allora l’Italia riuscì a rinunciare all’energia atomica, senza garantirsi la sicurezza. Ora è di moda rimpiangere l’errore compiuto, ma evidentemente qualcuno è affezionato a quel copione.