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3 Novembre 2004

La vittoria della politica

Autore: Vittorio Zucconi
Fonte: la Repubblica

Ora sappiamo chi ha vinto, in America, ed è una magnifica notizia: ha vinto la politica. La «polis» sonnacchiosa e indifferente dei giovani, dei menefreghisti, dell´«ho cose più importanti da fare che andare a votare per quei ladri» si è svegliata e ha preso la sua rivincita sui cinici e gli scettici e i teorici del neo cesarismo antipolitico. Fra i tanti morti che questa guerra cominciata l´11 settembre del 2001 e dilagata alle migliaia di caduti in Iraq e in Afghanistan, una resurrezione c´è stata ed è stata la riscoperta che di indifferenza e di apatia civica si può morire. La guerra per esportare la democrazia è almeno servita all´America per reimportare la democrazia.


Le cifre delle iscrizioni alle liste di voto, le immagini delle lunghe file ai seggi che in Florida hanno tenuto pensionati ed elettori anziani in piedi anche quattro ore per non essere defraudati come avvenne quattro anni or sono, lo scatenamento di querele e di risse legali che, a seggi già aperti, chiedevano ai giudici interventi, sono stati il segnale che questa volta democratici, repubblicani, indipendenti, hanno voluto riprendersi in mano il corso della loro storia. Non importa che abbiano votato per Bush, per Kerry o per l´immarcescibile narciso Ralph Nader. Importa che abbiano capito la lezione di una guerra dichiarata e combattuta senza mandato elettorale per farla.
La prova che la guerra è stata il ricostituente formidabile della partecipazione civile, è nel boom di iscrizioni alle liste elettorali, che negli Stati Uniti sono sempre volontaria, e mai automatiche od obbligatorie come in altre nazioni, avvenuto tra la generazione dei giovani compresi fra il 18 e il 29 anni, dunque tra le leve esposte al rischio di una sempre possibile, e sempre negata, riesumazione del servizio militare obbligatorio congelato nel 1974 da Gerald Ford.
È come se una nazione dentro la nazione si fosse svegliata e ritrovata, per riconoscersi in un processo elettorale, dunque in una democrazia, che da quaranta anni appariva condannata a un progressivo e inarrestabile decadimento di partecipazione. Si deve risalire al 1964, alla sfida tra il campione della destra radicale Barry Goldwater e il vice di Kennedy, Lyndon Johnson, colui che aveva assunto i poteri presidenziali sull´Air Force One accanto alla bara di JFK e a Jacqueline con il tailleur Chanel schizzato di sangue e di materia cerebrale del marito, per trovare cifre simili a quelle di oggi. E anche allora, nel presagio di una guerra imminente in Vietnam e nell´angoscia dell´olocausto nucleare sfiorato pochi mesi prima attorno a Cuba, fu la guerra a scuotere l´apatia. Vinse Johnson, visto come il candidato della pace che allargò l´intervento in Indocina in un conflitto campale, prova ennesima che giudicare in anticipo i comportamenti di un presidente è sempre esercizio aleatorio o fazioso.
Non sappiamo ancora come le cifre straordinarie delle registrazioni di nuovi elettori e vecchi cittadini disaffezionati e riportati dalla guerra nella vecchia casa della democrazia si siano tradotti in voti effettivamente espressi, perché, soprattutto i giovani, sono notoriamente sfuggenti al momento di entrare nella cabina di voto. Nel 2000, soltanto il 30% dei teen agers e dei ventenni iscritti andarono poi a votare. Ma la miserevole percentuale di partecipazione di quell´anno, che vide appena il 51% degli elettori scegliere fra Bush e Gore o il vergognoso 31% che vota per rinnovare la Camera e il Senato, sarà sicuramente superata. Se non l´hanno superata i vivi, l´hanno sicuramente superata i morti, i voti fasulli di defunti riesumati da attivisti truffatori, i programmatori dei computer che hanno tentato di manipolare le nuove macchine per il voto tipo Bancomat o coloro che si sono iscritti a più seggi con nomi di fantasia, come i Dick Tracy, Flash Gordon, Donald Duck spuntati negli stati contesi, come Pennsylvania od Ohio. L´ansia per i brogli e i giochi di prestigio, che i democratici avevano sollevato per primi puntando l´attenzione sulla Florida governata da Fratello Jeb Bush, si è estesa ai repubblicani, che hanno tentato di bloccare le macchine per il voto a Philadelphia sospettando che fossero già state ritoccate dagli avversari. In Florida, la maledetta Floria, tredicimila voti espressi in anticipo sulle nuove macchine elettronica, sono stati inghiottiti e cancellati e non ci sono riscontri cartacei. «Chiedo a tutti gli elettori repubblicani di vegliare sulle procedure di voto e impedire brogli» avvisava ieri Peggy Noonan, la più brava fra gli scrittori di discorsi per presidenti repubblicani, segnalando un certo nervosismo nel campo dei bushisti.
Brogli e sporchi trucchi, morti che votano e cani iscritti ai seggi (anche questo è accaduto) non sono una novità in questa, o probabilmente in ogni democrazia elettorale. Quella americana è una grande democrazia, non una democrazia perfetta e i molti nei divengono visibili quando, come nel 2000 e nel 2004, si guarda ogni dettaglio. È l´attenzione spasmodica e simmetricamente bipartitica la novità, il sintomo della passione che questa presidenza, la minaccia del terrore, la guerra hanno saputo svegliare in quei venti o trenta milioni di cittadini addormentati e strappati al sonno dal desiderio di togliersi Bush dai piedi o di confermargli che in lui, come nel Dio stampato sui dollari, «we trust», abbiamo fede. «Meglio che votino i morti piuttosto che non votino i vivi» disse con orgoglio Richard Daily, il sindaco di quella Chicago dove un´improvvisa resurrezione di cari estinti diede a John F Kennedy il margine decisivo. Ma a George Bush va riconosciuto il merito di avere, senza volerlo, risvegliato il gigante civico americano che dormiva.