Il colmo sarebbe che, a ormai quasi tre anni esatti dall’inizio
dell’invasione che avrebbe dovuto «liberare» l’Iraq, riescano a far rimpiangere
agli iracheni la tirannia di Saddam Hussein. La cosa più agghiacciante non è
nemmeno il caos che rischia di trascinare il Paese in una guerra civile – questo
lo sapevamo già – ma l’impressione di totale impotenza di fronte al crescere del
caos. Il fatto che più nessuno sembri in grado di fermare questa spirale, pure
prevedibile ed anticipata.
Non sono in grado di farlo gli americani. I loro 130.000 soldati bastavano
e avanzavano per conquistare, si sono rivelati insufficienti ad assicurare un
minimo di ordine per gli occupanti, non avrebbero la minima possibilità di
intervenire efficacemente in una guerra civile di religione, tra sciiti e
sunniti. E del resto non ci pensano nemmeno: si sa che da qualche tempo la
preoccupazione principale di Washington non è più garantire una stabilità
duratura in Iraq, ma come ritirare i propri soldati, o trincerarli in basi
imprendibili, senza più doversi curare più del necessario di quel che gli
succede intorno. Non si capisce più nemmeno se la stabilità, la preservazione
dell’unità dell’Iraq, la sua «viabilità» democratica come dicono, sia ancora un
fine o solo la scusa per potersene andare il prima possibile.
L’ambasciatore Usa, Zalmay Khalilzad sta facendo del suo meglio per far da
paciere, dispensare buoni consigli. Ma nessuno sembra più starlo a sentire.
Appena il giorno prima dell’attentato alla moschea d’oro di Samara, che ha
scatenato questa nuova apparentemente inarrestabile spirale di violenze, aveva
insistito a perorare la formazione di un governo di unità nazionale che non
escludesse in sunniti, e per l’esclusione dal governo, o almeno dai ministeri
dell’interno e della difesa, degli esponenti sciiti legati a milizie di parte o
coinvolti nelle torture e negli squadroni della morte punitivi contro i sunniti.
Ha persino minacciato di tagliare i fondi se non lo ascoltavano. Ma è stata
vista come un’ingerenza, dagli uni come dagli altri. Se non è stato questo a
scatenare la crisi, probabilmente ha pesato nella scelta del momento da parte di
chi ha acceso la miccia. La maledizione è che a questo punto, qualunque cosa
facciano o dicano gli americani, anche le più sacrosante, la tendenza è che gli
venga attribuita la colpa di tutto quello che va male.
Erano gli ultimi a poter volere che saltasse in aria una delle moschee più
sacre agli sciiti. Ma le folle inferocite accorse sulle macerie scandivano in
coro che l’attentato sarebbe stato tutto «colpa degli americani». Al minimo, li
accusano di non aver fatto nulla, o non aver fatto abbastanza per difendere i
luoghi santi. I litiganti se la prendono con chi li vorrebbe separare. I sunniti
accusano gli Stati uniti di non fare abbastanza per difenderli dalle vendette
degli sciiti. Gli sciiti cominciano a parlare addirittura di un «secondo
tradimento» da parte degli americani, dopo quello del 1991, quando fu
incoraggiata la rivolta sciita e poi abbandonata ad una spietata repressione da
parte di Saddam.
Più terrificante ancora è che, per la prima volta, sembri essere divenuta
inascoltata la voce calmieratrice del grande ayatollah Ali Sistani.
L’ultraottantenne religioso si era precipitato subito dopo l’attentato di Samara
in televisione a perorare la calma. Ma poi aveva aggiunto che se gli altri (il
governo, gli americani) non riescono a proteggere le moschee sciite, «lo faranno
i fedeli, con l’aiuto di Allah».
Aveva anche, in una dichiarazione successiva, categoricamente proibito
ritorsioni ed attacchi contro le moschee sunnite. Ma il suo invito non ha
impedito che ne fossero attaccate, bombardate coi razzi e incendiate a
decine.
Sono stati uccisi gli imam di almeno tre moschee sunnite di Baghdad, Al
Sabar, Al Yaman, al Rashdi. Un quarto, lo sceicco Abdul Qadir Sabih Nori della
moschea di Amjed al-Zahawi è stato rapito da miliziani armati. Quelle distrutte
sono 27 nella sola capitale. Al che – ed anche questo è la prima volta che
succede – l’Associazione dei religiosi sunniti ha additato la responsabilità di
«certe autorità sciite» per aver incoraggiato le manifestazioni. Non hanno
nominato Sistani, ma tutti hanno inteso che, per la prima volta, ce l’avevano
con lui.
Eppure, se la spirale di violenza era stata finora evitata, ci si era
fermato tante volte sull’orlo del baratro di una guerra civile di tutti contro
tutti, il merito non era stato certo della presenza delle truppe occupanti,
bensì della accorta moderazione dell’anziano ayatollah. Ogni volta che
scoppiavano bombe massacrando sciiti, o rischiava di scatenarsi la spirale delle
vendette e delle ritorsioni, era stato lui a proibirle con le sue fatwa. Ci
hanno raccontato di quando i capi di un clan sciita, che avevano subito vittime
in un attacco ad opera di bande sunnite contro una festa nuziale si erano
rivolti a lui per chiedergli il permesso di intraprendere una spedizione
punitiva. «Vi proibisco di farlo, non lo autorizzerei nemmeno se ammazzassero i
miei figli, non dovete farlo nemmeno se ammazzano me, l’unità dell’Iraq è più
santa di qualunque vendetta», gli aveva risposto. La cosa aveva retto sinora,
appesa ad un filo. Ma cosa può succedere se anche questo baluardo si rivela
troppo facile, se finiscono per non ascoltarlo più?
Proseguono, nell’impotenza generale massacri che chiamano altri massacri.
La conta dei cadaveri ieri superava il centinaio. Ciascuno sembra volersi far
giustizia da sé. Le forze dell’ordine del governo ufficiale si rivelano
impotenti di fronte al montare della furia, o stanno a guardare. Quando non sono
loro a soffiare sul fuoco. Sono stati i poliziotti a linciare nel carcere di
Bassora una decina di «arabi stranieri» che vi erano detenuti come sospetti di
terrorismo. Nessuno ha voluto o potuto muovere un dito quando a Samarra un
gruppo di miliziani ha fatto scendere dalle auto e ucciso una cinquantina di
sunniti che avevano appena partecipato ad una manifestazione di protesta
«bipartisan», sunnita e sciita, contro l’attentato alla moschea.
Nel momento in cui gli iracheni, per la prima volta sunniti compresi, erano
andati in massa a votare, era sembrato che si affacciasse la possibilità di
passare dalle violenze alla politica, anche grazie al fatto che nessuno, nemmeno
la coalizione di formazioni sciite, aveva ottenuto una maggioranza che poteva
essere vista come imposizione prepotente sugli altri. Ma ieri i sunniti hanno
rotto le trattative in corso con sciiti e curdi per la formazione del nuovo
governo, «finché non saranno portati dinanzi alla giustizia i responsabili degli
attacchi contro i sunniti».
Già chiuso l’esile spiraglio che sembrava essersi aperto? Persa l’ultima
occasione? Forse no. Ma se la spirale non si ferma il rischio è che finiscano
dritti verso la guerra civile e verso la spartizione dell’Iraq tra sciiti,
sunniti e curdi. Con conseguenze spaventose, da far rimpiangere Saddam, e non
solo agli iracheni.