Leggo sui giornali di domenica scorsa che Rutelli e Veltroni intendono
accelerare il processo di costruzione del Partito Democratico — un partito che
quanto meno assorba i Ds e la Margherita — facendolo partire subito dopo le
elezioni.
Vedremo se questo proposito resisterà ai risultati elettorali: anzitutto
alla vittoria o sconfitta del centrosinistra; secondariamente ai «pesi» che i
due partiti avranno ottenuto. Non è mistero per nessuno che un ottimo risultato
per i Ds e buono per i partiti della sinistra più radicale, accoppiato ad uno
pessimo per Margherita, potrebbero frustrare i propositi anche dei sostenitori
più convinti e aprire la strada ad altri progetti politici. Ma facciamo
l’ipotesi più favorevole, che ci sia una vittoria del centrosinistra, che i
partiti più radicali restino fermi e che Margherita mantenga o accorci le
distanze con i Ds. In questo caso, quali sono i principali problemi che un
processo di rapida costruzione del Partito Democratico deve affrontare?
Semplificando molto, ne vedo due di natura politico-culturale e uno di natura
organizzativa. Lascio da parte quest’ultimo, pur importantissimo — la forma del
nuovo partito, il suo statuto, i passaggi del processo costituente — per
concentrarmi ora sui primi due.
Il primo problema è quello di cui si è maggiormente discusso in queste
settimane di campagna elettorale, ma che da sempre è avanzato come obiezione di
fondo alla costruzione del Partito Democratico: il contrasto delle tradizioni
politico-culturali che dovrebbero confluire nel nuovo partito. Esso si è
esacerbato in conseguenza della scelta dello Sdi di abbandonare un progetto di
cui era forse il principale sostenitore e presentarsi con i radicali nella «Rosa
nel pugno». Questo ha aperto (naturalmente c’erano buoni motivi: il referendum
sulla procreazione assistita, l’attivismo delle gerarchie ecclesiastiche,
l’atteggiamento cauto — diciamo così — di Margherita) un fronte di conflitto
prima latente tra «laici» e «cattolici», che si aggiunge ai fronti da tempo
aperti tra estremisti e moderati sulle politiche economico-sociali e sulle
questioni internazionali. Si tratta di un problema serio per i ceti politici del
centrosinistra, ma non insuperabile: esso viene da lontano, da una storia che ha
impedito sinora la costruzione di un grande partito riformista, e leader
politici degni di questo nome dovrebbero capire che si tratta di storia passata,
che dice assai poco all’Italia di oggi. Il problema vero riguarda il futuro:
qual è il compito storico del Partito Democratico? Qual è il suo soffio vitale,
la sua anima, il messaggio profondo che manda agli italiani?
È su questo secondo problema che Rutelli, Veltroni, Fassino e tutti quelli
che credono nel Partito Democratico dovrebbero impegnarsi. Il compito storico
del partito — a me sembra — è quello di contribuire a fare dell’Italia un Paese
civile: un Paese in cui il buon funzionamento del mercato, la concorrenza,
l’efficienza dei servizi pubblici, la lotta alle rendite e all’ abuso di
posizioni dominanti, il contrasto dell’illegalità, siano obiettivi condivisi dal
più gran numero di cittadini e in primis dalla sinistra riformista. In cui tutti
accettino che non ci sono diritti senza doveri. In cui il merito va premiato, ma
i «capaci e i meritevoli» vanno anche attivamente cercati e aiutati in tutti i
ceti sociali. In cui l’istruzione è un obiettivo perseguito ossessivamente dal
governo, nella convinzione che si tratti della base più solida per una crescita
futura. In cui l’inclusione dei cittadini nel lavoro, nella scuola, nei processi
democratici avviene favorendo la crescita e non distribuendo briciole grattate
via da una torta che non cresce.
La smetto subito di esercitarmi in un pezzo di prosa della quale Eugenio
Scalfari ci dà buoni esempi ogni domenica. Quella cui ho appena accennato è una
tipica tavola di valori liberali, democratici, socialisti, solidaristici, molto
simile alle piattaforme della Terza via di Tony Blair o del Nuovo centro di
Schröder. Una piattaforma che, nel nostro Paese, ha in passato attratto
minoranze esigue di cittadini. D’altra parte, se il Partito Democratico non si
dà questa tavola di valori, quale altra può darsi? È per questo che il compito
politico-culturale primario dei leader che credono nel progetto non è perdersi
in polemiche di retroguardia, ma «tradurre in italiano» quella tavola di valori,
far diventare il «Paese civile» non solo l’aspirazione di minoranze
intellettuali ma il sogno comune di un gran numero di italiani.