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31 Marzo 2006

La tagliola delle tasse

Autore: Dario Di Vico
Fonte: Corriere della Sera

A metà legislatura il divorzio tra Silvio Berlusconi e i ceti medi diventò politicamente visibile. Forza Italia che ne aveva intercettato il consenso non era riuscita nel progetto di sostituire la Dc, di dare rappresentanza stabile alle ansie delle classi intermedie. Si è discusso a lungo se ciò fosse l’effetto di un impoverimento di impiegati, artigiani e piccoli commercianti causato, insieme, dal debutto dell’euro e da una cattiva distribuzione del reddito. Probabilmente si erano messe in moto dinamiche più complesse, un «crollo delle aspettative» che avrebbe destabilizzato la tradizionale visione del mondo del ceto medio italiano.

In parallelo era fallito il disegno berlusconiano di agganciare la parte moderata del sindacalismo confederale e la retorica delle partite Iva aveva mostrato la corda: più che piccoli Bill Gates erano cresciute le pizzerie al taglio. Ad approfittare del cambio di umore è stato, nelle elezioni di medio termine, il centrosinistra, che si sarà pur giovato della rivitalizzazione dell’organizzazione dei Ds e della rinnovata verve della Margherita, ma ha soprattutto lucrato sul fallimento della politica sociale azzurra.

Una condotta assennata avrebbe dovuto portare l’Ulivo a fidelizzare i nuovi elettori fornendo al voto di protesta una risposta in positivo. Così non è stato e in queste settimane il ceto medio transfuga, che continua a risparmiare più che altrove, non ha ascoltato dai leader del centrosinistra né una proposta dettagliata nei numeri né uno slogan efficace ma una Babele di voci e di cifre. E’ vero che Prodi ha puntato tutto sulla riduzione del cuneo fiscale ma si tratta di una proposta che parla essenzialmente al blocco dei produttori. Non è un caso che il suo avversario Berlusconi, per aprire una breccia nel rapporto tra centrosinistra e imprenditori, abbia dovuto improvvisare a Vicenza un numero da teatro e che lo stesso Prodi abbia ricevuto ovazioni al congresso della Cgil.

Il guaio è che i produttori non sono tutta la società italiana. In alto resta scoperto il segmento della borghesia dei servizi, la porzione cosmopolita del Paese che la pensa come l’Economist e che se sceglierà Prodi lo farà perché considera il Cavaliere unfit. In basso, una proposta rivolta solo ai produttori lascia scoperta la pancia della società italiana, quei ceti medi non toccati dalla concorrenza che si preoccupano quando nei talk show si insiste sul fisco e alla fine scelgono prevalentemente per paura. E comunque al di là delle loro angosce l’elettore di oggi è a personalità sociale multipla e quando vota prevale in lui non l’identità professionale, ma l’essere di volta in volta risparmiatore, consumatore o proprietario di case.

Se la politica per sua natura deve governare le paure degli elettori, l’Unione non è stata in grado finora di compiere quest’elementare esercizio e anzi i suoi leader hanno spaventato l’elettorato con annunci contraddittori. Sulle tasse si può decidere, a ridosso delle urne, di essere evasivi o più onestamente di prendere impegni precisi, il centrosinistra ha percorso la terza via: dare numeri incoerenti e diventare suo malgrado «il partito delle tasse». Gli italiani non rifiutarono l’eurotassa perché il Prodi di allora riuscì a spiegare che era uno strumento per raggiungere
l’obiettivo moneta unica. Oggi nella comunicazione unionista non è altrettanto chiaro quale sia il fine mentre è evidente il mezzo. E le tasse possono diventare per il Professore la trappola dell’ultimo giro, la tagliola in cui rischia di rimanere imprigionato il piede dell’atleta che viene da una lunga corsa condotta in testa.