Quando il Sunday Times ha rivelato l’esistenza di un dialogo diretto tra gli americani e la guerriglia irachena, la nostra reazione, e pensiamo non soltanto la nostra, è stata di incredulità.
Dopo aver tanto investito in una guerra tra le più controverse degli ultimi decenni, dopo aver avuto più di 1700 morti, dopo aver esaltato il processo di democratizzazione ed essersi opposta ad ogni pur minimo segnale trattativista da parte degli alleati, era mai possibile che l’America di Bush rinunciasse di colpo alla sua inflessibilità e andasse a parlamentare con gruppi di stragisti come quello di Ansar al-Sunna? Era ed è possibile.
La prima conferma è arrivata dal segretario alla Difesa statunitense Donald Rumsfeld e la seconda, ieri, dal britannico Tony Blair che ci tiene a precisare di essere della partita. Sorge allora un impellente bisogno di capire, ed è lo stesso Rumsfeld ad aiutarci nell’impresa.
Mentre Bush ripete le sue formule classiche (lo farà anche oggi, anniversario del passaggio di sovranità agli iracheni), il capo del Pentagono afferma per la prima volta che la guerriglia durerà parecchi anni e che a sconfiggerla dovranno pensare non gli Usa e i loro alleati ma l’Iraq.
E’ un annuncio non datato di exit strategy, peraltro in linea con i sondaggi d’opinione che in America tollerano sempre meno la guerra e con le pessimistiche previsioni tanto dei militari quanto della Cia.
Ma se Bush vuole predisporsi a proclamare una vittoria non conquistata e far rientrare i suoi soldati, è necessario ridurre la minaccia interna e dare una mano ai traballanti guardiani della sicurezza irachena.
Gli incontri con i «resistenti » sunniti diventano così perfettamente logici: si tratta di proporre il loro coinvolgimento nel processo politico in atto, di ottenere un impegno di abbandono della violenza, di isolare i più intransigenti e, male che vada, di creare imbarazzo nel fronte nemico svelando contatti con i «crociati» invasori.
Già, ma la spiegazione ancora non ci soddisfa. Il quotidiano bagno di sangue iracheno lo conosciamo tutti, non saremo noi a criticare l’intenzione pragmatica di recuperare alla politica quanti sinora hanno preferito esprimersi con le autobombe, il risultato delle elezioni presidenziali in Iran è un motivo in più per insistere nel tentativo, e del resto una strategia del genere era presente nelle deliberazioni della conferenza di Sharm el- Sheikh.
Ma se così stanno le cose, se è accettabile discutere con fior di stragisti con l’unica eccezione di Al Zarqawi di cui si annuncia da tempo la prossima cattura, perché un’analoga elasticità di princìpi non è stata applicata da parte americana in occasione dei sequestri di persona che noi italiani, e non soltanto noi, abbiamo dolorosamente subìto?
Certo, parlare non vuol dire pagare. Ma parlare significa pur sempre accettare la possibilità almeno teorica di un accordo fatto di concessioni e di contropartite, secondo uno schema non troppo diverso da quello seguito per ottenere la restituzione degli ostaggi minacciati di morte.
Perché allora i nostri alleati americani giudicarono tanto severamente la liberazione delle due Simone, perché la memoria di quell’episodio influì sui comportamenti di chi voleva salvare Giuliana Sgrena, e portò alla tragica e tuttora inspiegata uccisione di Nicola Calipari?
E’ difficile resistere alla sensazione che in Iraq siano stati applicati dagli americani due pesi e due misure. Ben venga la svolta pragmatica, se ora è questa a prevalere. Ma gli italiani non possono compiacersene senza ricordare.