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14 Agosto 2005

La Suburra in casa

Autore: Eugenio Scalfari
Fonte: la Repubblica

AI TEMPI della dinastia Giulio-Claudia la Suburra era un quartiere e una strada, a poche centinaia di metri dalla Casa imperiale. Cominciava dalle pendici dell’Esquilino e finiva a poca distanza dalla spianata del Foro. Sotto scorreva la cloaca massima che sbucava nel Tevere davanti all’Isola Tiberina, all’altezza dei templi di Vesta e della Fortuna Virile.

Era un quartiere popolare e malfamato, ma non mancavano case patrizie e di liberti arricchiti, circondate da taverne, bordelli, bische, fondachi, abitati da lenoni, prostitute, commercianti, ladri, tagliagole e anche da qualche persona perbene.

Così era il cuore della Roma di allora. Sullo sfondo a est Vespasiano costruì il Colosseo, a sud si vedeva l’Arco di Tito, a ovest il Tempio di Nettuno e la Rocca Capitolina sovrastante la Rupe Tarpea.


Da allora la parola Suburra acquistò anche un significato traslato, denominò un degrado sociale e morale, coesistente con la forza e la dignità dell’imperium. La “Via sacra” sulla quale passavano le legioni vittoriose e i loro comandanti, correva in perpendicolare rispetto alla Suburra.


Questo quadro geopolitico è quanto mai d’attualità. In un certo senso lo è sempre stato, non solo a Roma e non solo in Italia, ma in tutti quei luoghi del mondo dove vi sia intensa lotta per l’accaparramento della ricchezza e per la conquista del potere. Cioè dovunque.

Talvolta è la ricchezza a creare il potere, talaltra è il potere a creare ricchezza; si tratta infatti di due elementi fortemente interattivi. Ogni paese ha la sua Suburra, il che non è affatto consolatorio. È semplicemente un dato di fatto.


Gli uomini di Stato (di tanto in tanto ne nasce qualcuno) stabiliscono regole adatte a bonificare le suburre e inducono con l’esempio a comportamenti meno degradati. La morale serve a questo: a immaginare e praticare il bene comune superando gli appetiti primordiali.


Se la storia non fosse punteggiata anche da queste fasi positive, sarebbe solo un susseguirsi di sopraffazioni, intrighi, delitti. Cesserebbe di essere storia. La vera fine della storia è la Suburra permanente. Nei tempi e nei luoghi in cui la permanenza della Suburra si è protratta, quei paesi sono infatti usciti dalla storia. Non sempre sono riusciti a rientrarvi.


Domenica scorsa ho scritto un articolo intitolato “Alla ricerca della morale perduta” dove, con riferimento ad attualissime vicende, distinguevo tra il sentimento morale che fa tutt’uno con l’identità della persona e le morali parziali che emergono a modello degli interessi, delle passioni, degli appetiti. Mi ha fatto piacere trovare analoghi concetti negli articoli di Ilvo Diamanti e di Berselli su Repubblica, di Giovanni Sartori e di Lucia Annunziata sul Corriere della Sera e sulla Stampa di ieri. Questa convergenza di convinzioni costituisce un fatto positivo. Un segnale confortante. Di fronte alla Suburra dilagante i maggiori quotidiani italiani hanno opposto, senza bisogno di alcun “concerto” tra loro, una salda linea di resistenza. Forse la sola che, ispirandosi al sentimento morale, stia cercando di preservare due beni pubblici di fondamentale importanza: la libertà d’informazione e l’oggettività dei banchieri nell’erogazione del credito. Tutte le volte che si è tentato di distruggere lo Stato di diritto, l’offensiva è sempre cominciata dalla libertà d’informazione e dall’oggettività nell’erogazione del credito.


Per impedire che questi tentativi riescano nei loro perversi intenti non c’è che opporvisi mobilitando l’opinione pubblica. I giornali che ne sono la voce mostrano d’aver compreso quale sia il loro ruolo. Così accadde anche ai tempi della P2, che coltivava analoghi progetti contro lo Stato di diritto da realizzare con la consueta tecnica della conquista del potere bancario, il bavaglio alla libertà di stampa, l’asservimento delle istituzioni di garanzia a cominciare dalla magistratura. Il disegno della P2 fu alla fine sconfitto. Così mi auguro accada anche oggi nonostante i molti e molto trasversali errori che vediamo commettere a destra e a sinistra.


Dal formicaio dell’attuale Suburra sono emersi alcuni personaggi confinanti con l’imperium poiché forniti di poteri decisionali o a essi contigui. Indichiamoli questi emergenti: Gianpiero Fiorani, amministratore delegato della Banca popolare italiana (ex Lodi), Emilio Gnutti finanziere e brasseur d’affaires, Stefano Ricucci e i suoi compagni “immobiliaristi”, Francesco Gaetano Caltagirone costruttore edile, editore del Messaggero e del Mattino di Napoli. Con la sola eccezione di Caltagirone, tutti gli altri sono inquisiti dalla Procura di Milano che ha da tempo disposto l’intercettazione dei loro telefoni affidandola alla Guardia di Finanza in veste di polizia giudiziaria. I reati dei quali sono accusati vanno dall’aggiotaggio al falso in bilancio al depistaggio delle autorità di controllo. Il tutto con riferimento all’Opa sulla banca padovana Antonveneta.

La Consob, nei suoi poteri di tutela del mercato e della trasparenza delle operazioni, ha sospeso l’Opa e la Banca d’Italia ha confermato (assai tardivamente) la decisione della Consob. Il gip di Milano ha disposto il sequestro del 40% delle azioni Antonveneta rastrellate da Fiorani e dai suoi alleati, delle plusvalenze realizzate e ha sospeso per due mesi Fiorani, Gnutti e Ricucci da ogni attività amministrativa.


Nel frattempo sono diventate di dominio pubblico le intercettazioni telefoniche effettuate. I giornali ne hanno dato ampia (e spesso confusa) notizia. L’impressione che se ne ricava è appunto quella d’un gruppo animato soltanto da appetiti, vanità, manie di grandezza, disprezzo d’ogni regola, volpi e faine da pollaio, servilismo verso i potenti accompagnato da abbondante disprezzo. Insomma la Suburra è la cloaca che scorre sotto la superficie con i suoi miasmi e il suo liquame.


Non sappiamo se i reati dei quali sono accusati saranno provati in giudizio, ma dal punto di vista morale essi sono già condannati. La pubblica opinione è più rapida; talvolta la rapidità va a detrimento del vero e del giusto, ma in quest’occasione a me non pare ci possano essere equivoci e fraintendimenti. I contesti di quelle conversazioni, i progetti che se ne ricavano, i metodi adottati, sono quelli del malaffare. Non emergono finalità d’altro genere che non siano quelle di soddisfare l’appropriazione di ricchezza che produca ricchezza, per se stessi e unicamente per se stessi.

Mi ha colpito, tra i tanti spunti di quelle registrazioni, la furbata (meglio sarebbe chiamarla mascalzonata) di Fiorani che finanzia una sessantina di clienti della sua banca affinché comprino azioni Antonveneta e poi le rivendano entro un certo termine alla banca stessa, guadagnandoci sopra; il tutto per andare avanti sotto mentite spoglie nel rastrellamento pre-Opa (autorizzato dal governatore Fazio contro il parere dei suoi stessi ispettori). Del resto analoghe pratiche Fiorani le aveva svolte in favore di Ricucci e dei suoi compagni.


Mi ha colpito altresì l’entità dei fondi che alcune banche italiane hanno messo a disposizione di Ricucci fin dal 2004: in totale i prestiti a buonissimi tassi ammontano a 934 milioni, pari a 1.850 miliardi di vecchie lire. Da aggiungerci 350 milioni di euro provenienti dalla Deutsche Bank. Garanzie? In gran parte i titoli dell’Antonveneta rastrellati, dell’Rcs, della Bnl comprati con quegli stessi prestiti e messi a garanzia delle banche creditrici. In gergo tecnico si chiama leverage by out ed è praticato, anche se con le doverose cautele, ma mai per Opa, che una volta conclusa vede la caduta del titolo e quindi dei margini di garanzia. Ma soprattutto mai per scalare la casa editrice di un giornale.


Dov’è in tutto questo il peccato (mortale) di Fazio?

La vigilanza della Banca d’Italia aveva il compito di ispezionare la consistenza patrimoniale della Popolare Italiana e confrontarla con il patrimonio dell’Antonveneta, le cui dimensioni superano largamente quelle della “Lodi”. Gli ispettori dopo attento esame arrivarono alla conclusione che la “Lodi” non fosse in regola e che quindi l’operazione non potesse essere intrapresa. Il governatore viceversa firmò. Sembra la manzoniana Monaca di Monza: “La sciagurata rispose”. Non è la pretesa difesa dell’italianità delle banche che lo condanna, ma il mancato rispetto dei parametri patrimoniali e la partigianeria con la quale impedì alla Abn-Amro di comprare azioni Antonveneta mentre lo consentì alla “Lodi” la quale se ne servì nei modi che abbiamo già visto. Questi peccati sono ampiamente sufficienti a squalificare il governatore agli occhi di tutta Europa. E con lui purtroppo la credibilità del paese.


Resta da parlare della scalata alla Banca Nazionale del Lavoro da parte dell’Unipol e di Giovanni Consorte che l’amministra; nonché delle frenetiche telefonate dello stesso con mezzo mondo politico (di sinistra e di destra) e con i protagonisti delle scalate parallele su Antonveneta e Rcs (più ipotetici progetti di scalate a Mediobanca, Fiat, Capitalia da parte dello stesso branco lodigiano-bresciano – romano). Qui i problemi sono tre: le modalità dell’Opa su Bnl lanciata da Unipol per contrastare la Banca di Bilbao, l’ipotesi di un patto segreto che vede Consorte in combutta con Fiorani-Gnutti-Ricucci e quindi unifica strategicamente le tre scalate (tutte ormai sotto l’occhio della procura di Milano e di quella di Roma per quanto riguarda la Bnl), i rapporti che emergono dalle telefonate numerose e frequenti tra lo stesso Consorte e numerosi esponenti dei Ds, tra i quali Fassino, Bersani e il tesoriere di quel partito Ugo Sposetti.

Sul primo problema c’è da notare che anche Unipol, come la Popolare italiana (ex Lodi) non sembra disporre delle risorse necessarie per acquisire il controllo della Bnl. Di più: in questo caso emerge anche la circostanza che, essendo la dimensione patrimoniale di Bnl notevolmente superiore a quella di Unipol, la sua acquisizione cambierebbe le finalità di compagnia assicurativa di Unipol prevista come prevalente nelle sue attività nello statuto sociale e quindi darebbe agli azionisti dissenzienti il diritto di recesso, con ulteriore e notevole aggravio delle finanze di Unipol.


C’è una motivazione valida per portare avanti un’operazione così onerosa? Secondo il presidente della Lega delle cooperative sì, c’è una finalità d’interesse generale: far nascere una nuova nervatura del capitalismo italiano; accanto a quello familiare e a quello manageriale, un capitalismo cooperativo o comunitario che dir si voglia. Non sto a discutere se sia una motivazione valida. A occhio mi pare alquanto utopistica. Comunque c’è ed è sempre meglio che niente. Ma se questo è il fine bisogna pur dire che i mezzi adottati stravolgono quel fine in modo devastante. Se per costruire un capitalismo comunitario il manager incaricato di realizzarlo si trasforma in un elemosinante di appoggi politici a destra come a sinistra e di appoggi finanziari, tattici e strategici, con il gruppo Fiorani-Gnutti-Ricucci, al punto di scambiare con essi finanziamenti, promesse per il futuro, finti disimpegni, acquisti di azioni compensati con laute plusvalenze; se questi sono gli strumenti adoperati da Consorte, Dio ci scampi da un capitalismo cooperativo di tale fatta.


Infine i rapporti con i politici. Nessuno si stupisce che Tremonti e altri esponenti di centrodestra possono aver dato appoggio all’intraprendente Consorte. Diverso è il problema a sinistra. Che Fassino, D’Alema, Bersani, abbiano più volte dichiarato la loro simpatia politica verso le Coop non può suscitare alcuno scandalo: i legami della sinistra con le Coop (e quindi anche con Unipol) hanno caratteristiche storiche ben note e sempre ribadite. E nessuno, neppure i più feroci avversari, mette in dubbio l’onestà privata delle persone sopra indicate. Neppure stupisce che i dirigenti di partito abbiano colloqui orientativi con imprenditori, fa parte dei loro diritti e vorrei dire del loro dovere d’essere informati su quanto avviene nell’economia del paese.


Il tema del resto è stato lucidamente esposto dallo stesso Fassino nell’intervista a Repubblica di pochi giorni fa: l’impresa ha i suoi diritti e piena autonomia di farli valere nel rispetto della legge; alla politica spetta dettare le regole; alla magistratura (ma anche alla politica) controllare che siano rispettate.

Perfetto. Ciò significa che i politici debbono astenersi da appoggi e interventi di qualsiasi tipo quando un’impresa (specie se amica) si cimenta sul mercato in concorrenza con un’altra. Di qui l’inevitabile sconcerto per le molte, troppe, telefonate intercorse nei giorni caldi dell’operazione Bnl tra Consorte, Fassino, Sposetti e compagni. Che cosa c’era di così urgente da comunicarsi? Di che cosa parlavano? Di vacanze, di maltempo, o di che cosa? Il magistrato, in ossequio alla legge, ha secretato quei colloqui. Né potrebbe rivelarli, neppure se l’interessato lo chiedesse rinunciando all’immunità. Ma Piero Fassino può dire di che cosa si trattò in quelle frequenti conversazioni. Secondo me può e deve dirlo. E dovrebbe anche dire se i legami emersi tra Consorte e le altre cordate scalatrici non suscitino nel suo animo franca e onesta riprovazione. Questo ci aspettiamo da un uomo onesto, che crede nelle sue idee e nell’etica che le anima. Le mezze parole a questo punto non bastano.


Mi resta ancora un punto da affrontare e cioè il cosiddetto scandalo delle intercettazioni. Pera e Casini ne hanno fatto una questione preminente per quanto riguarda i membri del Parlamento. È in corso a questo proposito una discussione con il Tribunale di Milano della quale attendiamo con interesse il risultato.

Le intercettazioni si svolgono con una procedura prevista dalla legge. Si vuole cambiare la legge? Certamente si può. Vedremo come. Ma allo stato dei fatti una legge c’è e si tratta di controllare se sia stata rispettata oppure no. Ricordo a chi si scandalizza per il fatto stesso che vi siano intercettazioni che in Usa non solo la magistratura ma perfino la Sec (cioè la Consob americana) può disporre intercettazioni per accertare e perseguire reati contro il diritto societario, l’insider trading, l’aggiotaggio, il falso in bilancio. Lo sapeva onorevole Casini? Lo sapeva onorevole senatore Pera?

Comunque, vediamola questa legge di riforma e ne discuteremo. Ma le intercettazioni sono comunque un contenitore; poi c’è il contenuto, cioè le conversazioni registrate. Si vorrebbe conoscere che cosa ne pensino i presidenti Pera e Casini dei contenuti che stavano in quei contenitori. Finora sono stati avarissimi di giudizi sui contenuti quanto loquacissimi sui contenitori. C’è dunque una lacuna. Volete per favore colmarla?