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21 Giugno 2007

La sindrome del plebiscito

Autore: Edmondo Berselli
Fonte: La Repubblica

Succede talvolta che la politica
subisca un’accelerazione impensata. È stato sufficiente l’annuncio che
l’elezione del leader del Partito democratico avverrà in modo diretto,
attraverso la sovranità popolare, e tutto ciò che si diceva della nascita
del Pd, che era un incontro di oligarchie, che si trattava di una fusione
fredda, che era gestita esclusivamente dai corridoi di partito, è stato
superato. C’è voluto un atto di coraggio di Romano Prodi, o forse di
rassegnazione: ma in ogni caso si è innescata una miccia che farà brillare
l’ordigno sclerotizzato della politica italiana: si comincia a intravedere
l’opportunità di un processo di democratizzazione radicale i cui risultati
potrebbero risultare decisivi per un recupero di credibilità dell’intero
sistema politico.

Ci sarà tempo per osservare gli effetti di questa
decisione, un’onda d’urto che dovrebbe investire anche il centrodestra:
perché non è pensabile il perdurare di un’asimmetria che veda da un lato un
partito di mobilitazione, all’americana, e dall’altro un partito proprietario,
gestito dal suo titolare. Ma nello stesso tempo occorre chiarire subito che
il Big Bang del Partito democratico, perché di questo si tratta, non può e
non deve essere neutralizzato da manovre preventive di composizione, di
negoziato interno, di smussamento dei contrasti: l’elezione del leader è
un’eccezionale occasione perché si manifestino, e si mescolino,
appartenenze, idealità, valori, culture.

E quindi la ricchezza
potenziale di questo confronto non può essere sprecato in vista di un
plebiscito. Vanno guardate con preoccupazione, se non con sospetto, le
esitazioni e i surplace che stanno accogliendo la svolta “democratica”:
mentre si fanno più intense le pressioni perché Walter Veltroni si assuma la
responsabilità politica e civile dell’ingresso in campo, al punto che gli
sarà praticamente impossibile sottrarsi alla chiamata, cominciano invece a
manifestarsi le perplessità dei suoi competitori. Ad esempio sembra che
Francesco Rutelli sia intenzionato a sottrarsi al rischio di un confronto; e
il suo esempio potrebbe indurre altri possibili protagonisti a uscire
dall’arena. Conviene ripeterlo. Un prodotto politico come il Partito
democratico non può nascere in provetta.

Non si può immaginare che due
congressi di partito, lo scioglimento di Ds e Margherita e l’assemblea
costituente del 14 ottobre conducano a un risultato preconfezionato e a una
leadership predefinita. Anzi, in questo momento è urgente che le migliori
personalità dell’area “democratica” entrino in campo e giochino la loro
partita. Non per una questione di personalismo: ma perché intorno alle
figure di Rutelli, di Bersani, della Finocchiaro, e di chiunque volesse giocarsi
con la necessaria spregiudicatezza un futuro politico di primo piano,
ruotano anche culture, sensibilità politiche, memorie e proiezioni verso
un’idea di società desiderabile. Tutto questo non può essere lasciato al
patteggiamento fra correnti, partiti o leader. L’opinione pubblica
apprezzerà un confronto leale sui temi in gioco. Molti hanno notato che la
spiazzante mossa d’apertura di Dario Franceschini, che ha dichiarato con
chiarezza il proprio voto per Veltroni, è stato una carta pesante giocata
sul tavolo politico: che un leader della Margherita spinga la candidatura di
un leader diessino rappresenta un modo spettacolare per fare respirare il
confronto politico, fuori da condizionamenti e logiche di clan. Una volta
tanto, c’è spazio per il coraggio più che per le mediazioni. I leader del
centrosinistra dovrebbero riflettere sul fatto che è possibile che la
casella numero uno sia già stata assegnata, dall’umore popolare e dalle
sensazioni che si respirano in politica.

Ma in primo luogo questa
eventualità non è una necessità deterministica. E secondariamente le primarie
dei democratici non sono soltanto l’evento che fonda il partito; sono anche
lo strumento per scremare la sua classe dirigente, definendo la forza
relativa di ogni protagonista e la sua credibilità pubblica. È un gioco, per
certi aspetti; ma richiede dai giocatori un impegno senza veli. Altrimenti,
i cittadini, gli elettori, avrebbero ragione di pensare che chi si sottrae
adesso, nel momento del gioco duro, chi fa calcoli troppo prudenti, chi
valuta in modo troppo certosino il proprio interesse personale, non avrà titoli
di merito per rientrare più avanti, quando il gioco sarà più facile.