La campagna elettorale per le politiche del 2006 è in pieno svolgimento ma, a una decina di settimane dal voto del 9 aprile, a nessun cittadino è ancora dato sapere che cosa lo aspetta in caso di vittoria degli uni o degli altri, e tanto meno in caso di pareggio (con l’Unione che prevale alla Camera, e la Casa delle libertà al Senato). Quel che non è difficile immaginare, invece, è quali saranno le emergenze che il nuovo governo dovrà affrontare fin da subito, ossia dall’estate prossima. La più importante, a mio parere, sarà quella dei nostri conti pubblici, in un triplice senso.
Primo. Stante l’andamento del conto consolidato delle amministrazioni pubbliche, e la consueta incapacità dei governi di ogni colore di pianificare in modo realistico il livello del deficit, è molto improbabile che l’indebitamento netto del 2005-2006 si attesti ai livelli previsti (4,3% e 3,8%). Lo scenario più verosimile è dunque quello di una manovra correttiva fin dal secondo semestre di quest’anno, per avvicinarsi agli obiettivi concordati in sede europea.
Secondo. In ogni caso l’impegno a riportare il deficit entro il limite del 3% nel 2007 comporta, per la Finanziaria 2007, un’ulteriore correzione dei conti pubblici non inferiore ai 10 miliardi di euro.
Terzo. Se non spunteranno miracolosamente risorse nuove, sarà inevitabile bloccare o sospendere una parte consistente del «Piano delle Grandi Opere».
Negli ultimi due anni, infatti, si è creato uno squilibrio di alcune decine di miliardi fra l’ammontare delle opere aggiudicate (o in gara) e le risorse finanziarie effettivamente disponibili per la loro realizzazione. In concreto questo significa che la prossima Finanziaria dovrà scegliere fra un ulteriore rallentamento del piano e un salasso a danno di famiglie e imprese.
Naturalmente nessuno sa con esattezza a quanto ammonterà la somma di queste tre voci di costo, ma ci vuole una dose di ottimismo (o di incoscienza?) davvero ragguardevole per immaginare che tale somma risulti inferiore a un paio di punti di Pil, ossia a 30 miliardi di euro.
La domanda che si impone è dunque molto semplice: come intendono i due possibili vincitori far fronte a questo problemino?
Più prosaicamente. Dobbiamo attenderci «lacrime e sangue», ossia un prelievo più o meno forzoso dalle tasche dei cittadini? Oppure si pensa di lasciar correre il deficit pubblico ancora per qualche anno, in barba agli impegni con l’Europa?
Nel primo caso (lacrime e sangue) ci piacerebbe conoscere quali sono i gruppi sociali su cui si intendono far pesare i sacrifici maggiori. Nel secondo caso (finanza allegra) ci piacerebbe sapere come si intende far fronte all’inevitabile declassamento del debito dell’Italia, e al conseguente aumento dei tassi di interesse sul debito pubblico.
A me pare davvero curioso che, con l’immane matassa di problemi economico-sociali che abbiamo ereditato dallo sventurato decennio Prodi-Berlusconi, i due protagonisti del medesimo non solo ripropongano se stessi alla guida del Paese ma non riescano a produrre né una diagnosi credibile dei mali italiani, né una (conseguente) rivisitazione critica dei propri anni di governo, né una proposta chiara sui modi per uscire dal sentiero di declino che l’Italia ha imboccato dalla metà degli Anni 90. Non dico un’autocritica sulle scelte più sciagurate di entrambi i governi (questo richiederebbe un coraggio eccessivo), ma almeno una franca analisi delle proprie omissioni, delle decine e decine di cose che si sarebbero dovute fare in questi anni, e dei motivi per cui non sono state fatte. Una simile analisi sarebbe rassicurante, perché almeno ci darebbe la sensazione che gli aspiranti premier si sforzeranno di non ripetere determinati errori, e che comunque hanno messo a fuoco gli ostacoli che dovranno superare. L’utopia che ho in mente è una puntata di Matrix in cui, anziché sfidarsi come l’altra sera a colpi di propaganda, i leader dei due schieramenti cominciassero con il raccontarci che cosa non rifarebbero, che cosa avrebbero voluto fare, quali forze hanno frenato il cambiamento.
La cosa che trovo più curiosa in Prodi e Berlusconi è la simmetria delle rispettive analisi. Entrambi paiono convinti che il principale ostacolo alla crescita dell’Italia sia costituito dall’avversario, e non dalle proprie difficoltà a governare la propria coalizione e a guidare la trasformazione del Paese in un ambiente internazionale sempre più «turbolento». Berlusconi pensava che, rimosso Prodi, l’Italia avrebbe ipso facto imboccato un nuovo glorioso cammino di modernizzazione.
Analogamente Prodi pensa che, rimosso Berlusconi, l’Italia possa liberare le sue migliori energie, e riprendere un cammino di crescita economica e civile malauguratamente interrotto nel 2001.
Questa doppia analisi è puerile. Berlusconi non è credibile proprio perché pretende di non aver sbagliato nulla nei suoi cinque anni di governo. Prodi non è credibile precisamente perché l’unica vera autocritica che sentiamo ripetere sugli anni dell’Ulivo è quella di non aver varato una legge severa sul conflitto di interesse, come se il declino italiano dipendesse dal non aver rimosso l’anomalia Berlusconi (ancora una volta la rimozione dell’avversario come unica via di salvezza del Paese). Naturalmente mi rendo conto che questo modo vagamente paranoico di fare politica possa avere una sua utilità, dal momento che riscalda gli animi ed eccita le rispettive tifoserie. Ed è perfettamente possibile che i richiami di industriali, sindacati e studiosi a parlare delle cose, di cifre e programmi concreti, abbiano qualcosa di elitario, da addetti ai lavori. E tuttavia mi chiedo se, da parte di entrambi i leader, non ci sia anche una sottovalutazione della maturità degli elettori. Per dirla con una canzoncina che va per la maggiore, forse – a differenza dei bambini – gli elettori non «fanno oh, che meraviglia, che meraviglia…».
Gli elettori, è vero, non apprezzano la commistione fra interessi privati e politica. Leggi ad personam e affare Unipol non sono un bello spettacolo per nessuno. E tuttavia lo scetticismo degli elettori non nasce solo di qui, ma innanzitutto dalla incapacità di entrambi gli schieramenti di trasmettere un’idea chiara e credibile dell’Italia che sarà. Dopo un decennio in cui poche cose sono veramente cambiate nella vita quotidiana dei più, una parte dell’elettorato pare entrata in uno stato d’animo non troppo diverso da quello che un paio di settimane fa fece esclamare a uno sconsolato Giuliano Ferrara: «Il 9 aprile perderemo e non cambierà nulla. Cin cin».
Se davvero vogliono conquistare i voti degli incerti, dei non schierati, dei delusi dalla politica, forse i nostri aspiranti leader dovrebbero cambiare registro. E provare a pensare che le loro puerili analisi del Paese e dei suoi problemi convincono solo chi è già convinto.