«Non mi sarei arreso, se ci fosse stata una possibilità di vincere». Ma si è arreso, lo ha appena detto. Così la folla di giovanissimi leva i suoi cartelli di supplica verso John Kerry: «Non mollare», «Fai che il nostro primo voto conti qualcosa», «Non fargliela passare liscia», «Questa democrazia non funziona». E più amaro, grondante di delusione: «Kerry, non ci meriti: stai rendendo questo giorno il più triste della nostra vita». Poi prevalgono gli applausi consolatori, gli abbracci, gli occhi lucidi, le mani di Kerry e di John Edwards levate con il pollice in alto, nel segno contradditorio del trionfo.
«Bye bye», grida la folla al candidato sconfitto: «Thank you John», magari ci vediamo fra quattro anni, o meglio subito nelle trincee del Senato. «E adesso combatti per noi», dice un altro striscione. «In questo viaggio mi avete dato l’onore e il regalo di imparare da voi — risponde lui, con la voce spezzata — Non lo dimenticherò, non vi dimenticherò. Combatterò per i principi che ho sostenuto finora, non mollerò la lotta, ve lo prometto. Insieme, possiamo ancora cambiare il futuro. Vi voglio bene. Grazie, grazie a tutti. Grazie ai democratici, ai repubblicani, agli indipendenti. Noi siamo tutti americani, e abbiamo dimostrato la nostra volontà buona e forte. Perché chiunque vinca nelle elezioni, il nostro paese si risveglia il giorno dopo più forte. Questa è l’America, dove qualunque cosa può avverarsi. E Dio benedica l’America».
Così finisce la breve leggenda: a Boston, nella storica Fenouil Hall dove si riunirono patrioti e rivoluzionari, a neppure 24 ore dalla chiusura dei seggi elettorali, il candidato democratico alla Casa Bianca pronuncia il suo discorso ufficiale «di accettazione». Riconosce davanti all’America e al mondo che ha vinto il rivale. Lo fa con volto stoico e parole sagge, ma il colpo subito si vede, e come: «Mi dispiace, siamo arrivati qui un po’in ritardo, e un po’più indietro rispetto agli altri». Parla del ritardo di oggi, nel discorso in piazza, ma tutti capiscono che si riferisce anche ad altro. Kerry non scatenerà neppure gli avvocati già pronti per chiedere una nuova conta delle schede. E’andata davvero male: non si è avverata nemmeno la profezia «di riserva», quella che accreditava una vittoria grazie ai molti voti anti-Bush, se non a quelli pro-Kerry. Due anni di corsa si fermano al traguardo: ma al traguardo, non c’è il popolo in festa o il cancello della Casa Bianca, solo questa gente che si stringe in un vento ghiacciato da Alaska, sotto un cielo azzurrissimo e pieno di gabbiani, quasi beffardo. Due ore prima, Kerry ha pronunciato le stesse parole di resa in privato, al telefono, rivolgendole direttamente al vincitore: «Con il presidente Bush abbiamo avuto una buona conversazione — racconta ora — mi sono congratulato con lui e con Laura. Abbiamo parlato del pericolo della divisione nel nostro paese, e del bisogno disperato di ritrovare l’unità».
La gente in piazza ascolta, e poi fischia. A lui, lo sconfitto, quella chiacchierata con Bush sarà costata, ma in fondo è questa di adesso la parte più difficile: perché i ragazzi, i volontari, la gente di Boston che forma la base storica del partito democratico, ancora non ci credono. Non ci credono soprattutto questi liceali, questi studenti dei college che avevano sperato più di tutti: e infatti eccoli che scandiscono in coro «Ogni voto è importante», «Ti fidi della Florida, John?», «L’ Ohio del 2004 è la Florida del 2000».
Lo ripete anche Kerry, nel discorso: «In America è vitale che ogni voto conti e sia contato». Poi però aggiunge: «Ma un’elezione dovrebbe essere decisa dagli elettori, non da una prolungata battaglia legale. Ora è chiaro che se anche riscrutinassimo tutti le schede provvisorie (quelle assegnate agli elettori che non ritrovano il proprio nome nelle liste dei seggi, ndr) non avremmo abbastanza voti per conquistare l’Ohio. Siamo giunti alla conclusione che non possiamo vincere queste elezioni».
La mattinata più malinconica della Boston democratica comincia con Kerry che esce dalla sua casa di Beacon Hill, la bozza del discorso già pronta su un foglio, e la moglie Teresa al fianco. Alle 13,30, già due o tremila persone aspettano intorno a Fenouil Hall. Non sono moltissime, ma potevano essere ancora di meno. Prima del grande sconfitto arriva il suo numero due, Edwards, anch’egli con la moglie. Poi Joe Lockart con la figlia bambina, Ted Kennedy, e via via tutti i consiglieri della campagna elettorale. I politici e le loro famiglie, e anche diversi amici d’infanzia, si ritrovano poi in una sala, seduti in prima fila davanti ad un grandissimo quadro che ritrae una scena ottocentesca legata allo storia della costituzione federale.
Sulla cornice del quadro, è stata incisa la formula del sogno politico americano: «Libertà e unione, ora e sempre». Parlano un po’tutti, si abbracciano, qualche signora si asciuga le lacrime. Edwards parla prima di Kerry: «Onoreremo la fiducia dimostrateci da ciascuno di voi. Non è stato quando è partita la campagna elettorale, che abbiamo cominciato a combattere per voi. E non smetteremo adesso che la campagna è finita». Ma fuori continua quel coro ormai surreale: «Grazie Kerry, grazie Edwards, Non arrendetevi», «Non è finita qui».