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7 Febbraio 2006

La politica in mano alle segreterie

Autore: Luigi La Spina
Fonte: la Stampa

I cittadini italiani se ne stanno già accorgendo, ma il 9 aprile sarà
chiaro a tutti: nell’intera storia della nostra Repubblica, il potere dei
partiti non è mai stato così forte. La prossima scheda elettorale lo dimostrerà
clamorosamente, perché non solo non conterrà alcun nome, tranne quello dei
leader inglobato nei simboli delle forze politiche, ma non ci saranno neanche
gli spazi per aggiungerlo, come avveniva, una volta, per le preferenze. La lotta
contro la cosiddetta partitocrazia, cominciata circa 20 anni, si è conclusa con
una disfatta disastrosa, ancorché paradossale. Gli iscritti ai partiti
diminuiscono, le sezioni chiudono, i legami ideologici si allentano, ma lo
strapotere delle oligarchie che li governano è ormai assoluto. Con una sola
eccezione, per di più peggiorativa, quella proprietaria e monarchica costituita
dal partito di Berlusconi.

Se l’Italia, agli inizi del nuovo millennio, si delinea come un modello di
società feudalmente divisa in corporazioni, ferrignamente impegnate a difendere
i loro privilegi, la politica ne rappresenta, con assoluta coerenza, il simbolo,
quello più importante ed estremizzato. Quello a cui corrisponde il massimo del
potere e il minimo di responsabilità. La cooptazione nella classe dirigente
politica, ormai, è basata solo sulla fedeltà alla nomenclatura, poiché la nuova
legge elettorale rende ininfluente qualsiasi altro criterio, dal legame col
territorio ai risultati dell’impegno parlamentare. Così, le segreterie dei
partiti, di fatto, stanno stabilendo al 90 per cento l’immagine del prossimo
Parlamento che, nella sostanza, non offrirà alcuna sorpresa rispetto alle
previsioni. Insomma, la campagna elettorale servirà solo a stabilire il verdetto
tra Berlusconi e Prodi.

Non si capisce, a questo punto, perché si parli di «candidati», invece che
di «nominati». Non si capisce perché debbano spendere soldi, sprecare fatica,
elargire promesse e favori coloro che sono già sicuri di entrare alle Camere o
di esserne esclusi, cioè il 90 per cento di quelli iscritti nelle liste.
Simuliamo un caso concreto: se un partito, in una circoscrizione, in genere
porta a Roma 5 deputati, si impegneranno nella campagna coloro che sono tra il
quarto e, al massimo, il settimo posto. Gli altri potranno dormire sogni
tranquilli o rassegnati. Le conseguenze di tale meccanismo accentuano i difetti
dei partiti, quali il mancato ricambio generazionale, la selezione
antimeritocratica, il continuo abbassamento delle competenze
professionali.

La risposta che i leader politici sempre forniscono a chi osa, sfidando
l’accusa di qualunquismo e demagogia, esprimere queste osservazioni è,
all’apparenza, efficace: noi dipendiamo dal voto degli elettori e la nostra
sorte è determinata dalla legittimazione popolare. Ma questa replica è meno
solida di quanto sembri, perché il paragone con le altre «corporazioni» della
nostra società non regge. Se la clientela di un medico si affretta troppo
numerosa al cimitero o quella di un avvocato affolla costantemente le patrie
galere, il mercato dei malati e quello degli imputati reagisce, disertando i
loro studi. Se i consumatori di automobili o di scarpe non sono soddisfatti dei
prodotti italiani si rivolgono all’estero. Ora, i cittadini italiani non solo
non possono decidere di farsi governare dalla Merkel o da Blair, ma sono
costretti a scegliere in un mercato determinato sostanzialmente dall’offerta e
non dalla domanda. Per confermare tale anomalia basterebbe un esempio, la regola
elettorale per cui i posti in Parlamento si spartiscono solo sui voti validi,
non sul totale dei votanti. Se alcuni scranni vuoti alle Camere documentassero
la proporzione degli astenuti, si avrebbe una riduzione del potere di quelle
forze politiche più colpite dalla disaffezione dei loro sostenitori. La sanzione
elettorale, poi, non ha molto effetto sul destino degli attuali leader politici.
Berlusconi e Rutelli, per parlare solo dei candidati a Palazzo Chigi sconfitti
nelle due ultime legislature, hanno brillantemente continuato la loro carriera
politica e, in generale, i capipartito devono guardarsi dalle congiure di
palazzo, non dagli scrutini delle schede.

Poiché i partiti sono il fondamento della democrazia e la qualità della
classe politica è determinante per lo sviluppo di un Paese, il vero problema è,
perciò, quello di avviare un processo di miglioramento della selezione
partitica. Le proposte che, da varie parti, si fanno a questo proposito si
concentrano fondamentalmente su due esigenze: trasparenza e democrazia interna.
I criteri del finanziamento pubblico devono essere rivisti, a partire da due
norme davvero inaccettabili. Quella che ammette il contributo anonimo fino a 50
mila euro e quella che esclude gli amministratori dalla responsabilità personale
nella gestione dei fondi a loro affidati. Un limite allo strapotere dei ras
nazionali, inoltre, è assolutamente necessario. Non si capisce perché
l’esperienza delle primarie, che ha avuto recentemente un successo così
clamoroso per i candidati del centrosinistra, non possa costituire un modello a
cui ispirarsi per assicurare una maggiore democrazia interna ai partiti. Se i
leader dovessero fare i conti prima di tutto con il consenso dei loro
simpatizzanti, invece che con la loro capacità manovriera all’interno delle loro
formazioni, la democrazia italiana potrebbe vantare, molto probabilmente, una
classe politica migliore. E’ vero che le speranze di un’autoriforma sono davvero
flebili, ma l’esperienza di questa campagna elettorale potrebbe essere talmente
insopportabile da indurre perfino a qualche ripensamento.