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28 Agosto 2005

La parola liberata

Autore: Barbara Spinelli
Fonte: La Stampa

Forse sapremo descrivere solo in un secondo momento quel che veramente accade da anni in Italia: il degradarsi specialmente rapido dello stile di governare, il frantumarsi dello spirito e del dire pubblico, la disciplina che non è radicata nei costumi ma si applica solo quando il magistrato interviene ed eludendo la legge con la furberia dei legalismi, il corrompersi vasto dell’autorevolezza associata alle classi dirigenti. Ma i sintomi già son visibili tutti, e la maniera in cui il male contagia politica e società l’abbiamo davanti, ogni giorno. Non sappiamo forse il perché di quel che accade, ma il come lo constatiamo da tempo.


Un sintomo vistoso di questo degradarsi delle classi dirigenti è la parola liberata: che vien detta senz’alcun freno, dunque senza responsabilità. Che si proferisce da un pulpito, senza chiedersi quali doveri il pulpito comporti. Il termine inglese accountability precisa l’obbligo che responsabilizza: di quel che si dice o si fa, si deve render conto a istanze di volta in volta superiori. La Parola Liberata (non diversamente dalla Donna Liberata, dal Terzo Mondo liberato) è il contrario di parola libera.


Nelle ultime settimane è stato un proliferare di parole in libertà abusivamente presentate come libere. Pensiamo alle parole che il 25 agosto su questo giornale son state dette da Maurizio Scelli, commissario straordinario uscente della Croce Rossa italiana, sui modi in cui il governo trattò con i terroristi per la restituzione degli ostaggi in Iraq. Oppure alle parole dette a Rimini dal presidente del Senato Marcello Pera sul minaccioso avvento, in Italia ed Europa, di società «meticce». Pensiamo alle parole del ministro leghista Maroni, condiscendenti verso un sindacato autonomo – il Sult, Sindacato unitario lavoratori trasporti – che ad avviso dell’amministratore di Alitalia nuoce con continui scioperi e rifiuti di riforma al risanamento della compagnia. Poi ci sono le parole che i ministri leghisti – ancora una volta – dicono sui più svariati argomenti, ultimo quello di Banca d’Italia. Parole sistematicamente volte a tutelare persone o istituzioni di cui i governanti della Lega sentono d’aver bisogno non già sulla base di seri studi di dossier, ma di un partito preso che nasce da esigenze corporative o regionali assai circoscritte (il contrario dell’interesse generale). Montesquieu aggiungerebbe a questa lista di corruzioni: l’onore messo in contraddizione con gli onori, l’abitudine a coprirsi allo stesso tempo d’infamia e di dignità.


L’uso improprio degli onori e del pulpito è quel che lega questi casi, che non esauriscono la gamma dei mali italiani ma che presentiamo come esempi utili per capire il come del presente degradarsi: l’uso in questione è improprio perché del tutto personalizzato, privatizzato. Un altro elemento comune ai casi elencati è il concetto distorto che ciascuno ha dell’autonomia: cioè di quella speciale libertà di manovra che ogni carica e corpo della classe dirigente ha per definizione, ma che viene accampata come diritto morale inoppugnabile, e che viene anch’essa privatizzata. Vediamo il caso di Scelli, per cominciare. Nella sua qualità di autorità della Croce Rossa, egli ha detto al giornalista della Stampa Guido Ruotolo cose che si sapevano e si dissimulavano, a proposito delle liberazioni di Simona Torretta, Simona Pari, Giuliana Sgrena. Ha detto come ai rapitori egli dovette promettere il silenzio italiano con Washington, oltre ad alcuni servizi (trattamento medico di combattenti, terapie di bambini raccomandati dai rapitori). Promesse che il sottosegretario Letta a Palazzo Chigi avallò, e di qui l’accusa che Scelli rivolge al governo di menzogna e ipocrisia, quando questi nega d’aver ceduto a ricatti e nascosto il proprio operare agli Usa.


Non sono cose nuove né sorprendenti, quelle dette da Scelli: lo stesso ex ambasciatore americano Peter Secchia sostiene che in guerra ogni paese può trovarsi a privilegiare interessi nazionali, e fra essi cita la liberazione di ostaggi. Il punto non è questo, ma è l’uso che Scelli fa dell’autonomia dell’istituzione Croce Rossa. Se fosse responsabile e sapesse di dover render conto di quel che dice, egli avrebbe rispettato la regola principe di simili operazioni e della sua associazione: il silenzioso riserbo, se necessario anche l’ipocrisia. Ipocrisia e riserbo diventano virtù in simili circostanze, e denunciare menzogne è falsa moralità: perché non solo compromette trattative analoghe in avvenire, non solo intralcia future intese di crisi tra governo e opposizione, ma rende la vita difficile agli stessi ex ostaggi, che non devono esser suddivisi tra chi fu liberato senza cedere e chi lo fu a seguito di cedimenti. Se la suddivisione diventasse criterio di giudizio, l’ostaggio più glorioso sarebbe l’ostaggio morto.


La stessa irresponsabilità connessa a un uso perverso e personalizzato dell’autonomia caratterizza l’intervento di Pera al convegno di Comunione e Liberazione. Non è un privato cittadino ma la seconda carica dello Stato che ha creduto di dover mettere in guardia contro la decadenza connessa al «meticciato». Che ha mescolato quel che una massima autorità pubblica non può mescolare (immigrati e terroristi; opulenza materiale degli Occidentali e vulnerabilità agli attentatori; antisemitismo nella storia d’Europa e voto del Parlamento europeo su Buttiglione; pena di morte e nozze tra omosessuali). È Pera depositario di un’alta carica che ha pensato di poter parlare politicamente scorretto al pari d’ogni altro cittadino, e di poter ignorare le conseguenze delle parole dette non dovendo rispondere di esse. Ecco un altro esempio di parola in libertà, dunque solo in apparenza libera.


Anche in questo caso la Parola Liberata avanza falsata, mascherata. Pera parla di autonomia, che è la legge che ciascuno può e dovrebbe dare a se stesso; e vorrebbe egli stesso mostrarsi autonomo, come chi cerca il vero senza tema di trasgredire luoghi comuni. Ma le parole sono importanti, non vacue; sono come una catena che ci argina. È vero: Kant ha inventato l’autonomia della ragione, in base alla quale il dover-essere è giudicato separatamente dall’essere, dunque separatamente dal mondo esterno così com’è. Ma il dover-essere di Kant prende la forma di imperativo categorico, e quest’ultimo s’impone al singolo uomo come al politico. Al primo impone di agire verso l’altro come vorremmo si agisse nei nostri confronti (il cristianesimo dice: ama il prossimo tuo come te stesso). Al politico impone di «render omaggio alla morale e al diritto» comunque, in ogni circostanza: anche quando da parte di altri uomini o culture non c’è reciprocità.


Il dover essere è una libertà che vincola, non una liberazione che scatena e si s-catena, forte di una generalizzata adorazione dell’impunità. Un presidente del Senato che usa parole imprestate da teorie razziali («meticcio») deve sapere quel che dice e ricordare che meticcio è variante di métèque, epiteto insultante adoperato in Francia dal fascismo di Charles Maurras. Métèque non è sinonimo di meticcio, letteralmente, ma le figure s’assomigliano. In ambedue le varianti il pericolo è la contaminazione razziale, l’intrusione dell’alieno. In Maurras era la contaminazione di ebrei e massoni. In Pera è la contaminazione dell’islam – 14 milioni di persone in Europa, poco protette da tabù forti come l’antisemitismo – e di un multiculturalismo che egli presenta come opzione nonostante esso sia la realtà del mondo che abitiamo. Una realtà che occorre regolare, governare: una cosa sono le dottrine multiculturali, tutte da ripensare; altra cosa è la società multiculturale, un dato di fatto.


Non per ultima, la Lega. La Lega è il partito dove la parola liberata regna incontrastata. Tutto è lecito dire, senza badare al senso delle istituzioni. I leghisti parlano in libertà, e come Pera giocano su due piani: vogliono per sé al tempo stesso le prerogative del pubblico e del privato, parlano come governo ma anche come se fossero opposizione. Dicono qualcosa di potente e s’avvalgono dei privilegi connessi all’impotenza. Sono il potere e il contropotere, l’autorità e il suo contrappeso. Sono tanti piccoli tiranni, e ciascuno si comporta come fosse unico despota, che «basta a se stesso e tutto è vuoto attorno a lui» (Montesquieu). Esemplare è il ministro Maroni sugli scioperi Sult all’Alitalia, e molto bene l’hanno descritto Marco Sodano su La Stampa o Pietro Ichino sul Corriere della Sera. Pur di difendere un sindacato (Sult) dissenziente dai sindacati classici, Maroni non esita, in nome dello Stato azionista di Alitalia, ad entrare in conflitto con Giancarlo Cimoli – l’amministratore che Berlusconi stesso ha scelto per risanare Alitalia – pregiudicando gravemente il futuro della compagnia.


La figura che lungo gli anni è stata modello per tanti è l’attuale presidente del Consiglio. Egli è stato ed è esempio d’una classe dirigente liberata da orpelli, responsabilità. Il mezzo è la privatizzazione del pulpito, degli onori, dell’edificio stesso da cui si governa. L’interesse particolare e privato prevale su quello generale, nazionale. La critica a chi coltiva quest’autonomia privatizzata è considerata lesa maestà, demonizzazione dell’avversario: l’infamia, abbiamo visto, ben può accordarsi con la dignità del comando, simultaneamente sfruttata e negata. Ogni particulare, scheggia impazzita, adotta per sé il motto: «Muoia Sansone e tutti i filistei!». Ognuno fa leva più sul proprio potere di nuocere, che su quello di edificare.


Tocqueville ha parlato dei numerosi esponenti della classe dirigente (magistrati, giornali, governatori delle province, servizio pubblico e autorità pubbliche di vigilanza, associazioni private, religiose o civiche di cittadini) come di particolari potenti: particolari indispensabili in democrazia, se si vuol controbilanciare la dittatura delle maggioranze parlamentari. Questi particolari potenti rivendicano adesso una radicale e privatizzata autonomia, che ignora il senso civico come il senso delle istituzioni e dello Stato. Ogni particolare potente dice le cose che gli aggradano, e per questa via fissa uno standard. Così comincia la corruzione, degli animi prima ancora che finanziaria. «Se quelli dal loro pulpito dicono e fanno quel che a loro piace, ciascuno di noi può fare allo stesso modo», è la lezione che ogni individuo rischia d’imparare.


È così che le repubbliche o le monarchie si scavano la fossa: prima rovinano la società, dando a ciascun particolare potente la sensazione di poter comandare in maniera assoluta e nell’impunità, senza dover render conto; poi si trovano alle prese con il predominio di tanti piccoli tiranni; infine son spinte verso il dispotismo d’uno solo.