7 Agosto 2005
La nuova questione morale
Autore: Barbara Spinelli
Fonte: La Stampa
Forse troppo presto si è annunciata la fine del modo di pensare ideologico, in Italia, dopo il fallimento dei totalitarismi e la duplice vittoria della democrazia e dell’economia di mercato in buona parte del mondo che ci circonda. Fu la grande illusione degli Anni Novanta, che in Europa centrale coincisero con la caduta del comunismo e in Italia con l’operazione Mani Pulite e con il naufragio di un sistema di governo immobile, inconfutabile, immutabile per decenni a causa dell’incapacità comunista a divenire alternanza. La corruzione si era annidata nel nostro sistema politico perché inevitabilmente l’immobilità, l’inconfutabilità e l’immutabilità del potere generano arroganza, dismisura, senso d’invulnerabilità. La grande illusione fu che Mani Pulite fosse servita a qualcosa, nonostante gli inevitabili eccessi di giudici e inquirenti che spesso parlarono troppo, e vollero essere protagonisti della politica senza essersi spogliati delle toghe. Nonostante tutti questi errori sembrava che anche in Italia fosse caduto un muro fatto di dogmi, di certezze inoppugnabili, di poteri insindacabili, e che la sua caduta avesse aperto nuovi spazi per respirare e indagare, per capire la nostra storia, per studiare correzioni e tentarle. Spazi non ideologici appunto, che non escludono sistematicamente il dubbio, la confutazione. Che coniugano di nuovo i nomi con la sostanza, le parole con i fatti.
A giudicare dalle molte cose che succedono quest’estate, non sembra che le cose siano andate così. Banca d’Italia, terrorismo, rievocazione di stragi passate come l’eccidio di Bologna, discussioni sull’intesa che De Benedetti ha stretto con Berlusconi e poi revocato: la maniera in cui questi vari episodi sono esaminati o vissuti da gran parte della classe dirigente è il più delle volte ideologica, non pratica. All’ideologo non importa sapere quel che veramente ha fatto o omesso di fare Banca d’Italia, per controllare scalate opache e con tutta probabilità scorrette di imprenditori e raider interessati sin dall’inizio ad aggirare la vigilanza: non importa apprendere quale sia stato il ruolo del governatore, se di arbitro o anche di giocatore. Per quanto riguarda il terrorismo non importa dal punto di vista ideologico sapere se esista e come possa essere mobilitato un Islam europeo e mondiale che col terrorismo non ha nulla a che vedere, e se esista il rischio di veder ridotto lo spazio riservato al potere giudiziario, oltre che alla polizia.
Sulle stragi non importa sapere come mai tanta gente continui a fischiare i governanti che rievocano l’eccidio di Bologna dell’80, e tanti familiari delle vittime soffrano per come regni tuttora il silenzio sulle complicità politiche e dei servizi con gli autori delle ecatombi. Infine, non importa sapere come mai De Benedetti abbia pensato di poter fare affari con un imprenditore che in passato accusò di comportamenti imprenditoriali eticamente scorretti, e che è capo di governo senza aver separato gli interessi privati dai pubblici. Tutte queste cose è come se fossero marginali: come se la questione non fosse il malaffare che permane – o gli enigmi italiani duri a morire – ma le operazioni giudiziarie e le domande di chiarimento che regolarmente riappaiono. Come se la sostanza diventasse realtà a seconda di chi la dice, non dei fatti assai concreti che son raccontati o che si voglion sapere. Quel che conta è chi sferra l’attacco, da quale schieramento, con quale scopo: non è il male, ma il dito che lo indica. Per questo i politici che s’installano ancora una volta nell’immobilismo parlano di una riedizione di Mani Pulite e non di un riemergere sia pur diverso della malacreanza, in economia e politica. Per questo i telegiornali aprono non sullo scandalo del malaffare ma su quello delle intercettazioni, senza senso della genealogia e delle responsabilità dei mali. Nella saggezza del proverbio cinese, la logica è chiara: «Quando il dito indica la luna, gli sciocchi guardano il dito».
Peccato per chi guarda solo il dito, prosegue il proverbio, perché resterà un ideologo disinteressato alla realtà e dunque sempre colto da essa alla sprovvista. Perché non avrà imparato dagli errori del passato, e di conseguenza non saprà correggersi e acquisire l’autorevolezza di chi tempestivamente reagisce, chiarisce. Non vedrà la luna, non avendolo voluto. Se la prenderà col dito indicatore, ancora una volta, rivelando di sé un tratto di carattere che in genere riserva ai poteri da cui si sente limitato: il risentimento rancoroso del potere debole. È caratteristico dell’ideologia non accettare la verità delle cose, chiudersi in esoteriche confraternite di eletti o compagni di partito (l’esoterismo coltiva le amicizie occulte, le «cuginanze» cui allude Sergio Romano), e aprire il fuoco contro chi mette in luce tali verità e vuole che la verità, da esoterica e segreta che era, diventi essoterica, accessibile a tutti. Così per Banca d’Italia ma anche per le stragi, per il terrorismo, e per le intese tra imprenditori che mescolano affari dubbiosi con dubbiose politiche.
Siccome la storia non si ripete tale e quale, il ritorno dell’ideologia va esaminato con occhi nuovi. È un’ideologia singolare infatti, quella che oggi rifiuta di esaminare la sostanza dei fatti e guarda innanzitutto a chi li denuncia. Essa pretende di non conoscere dogmatismi, si presenta come spregiudicata, pragmatica. Il mercato è mercato e non necessita discipline, dice. Altre volte sostiene che il business non si discute: competition is competition, in affari ma anche in politica (per esprimere queste convinzioni è raccomandato l’inglese), e poco importano le incompatibilità tra affari e politica. Quanto ai disastri passati (stragi, mafia, impaurenti enigmi che permangono anche in assenza di segreto di Stato), oblio e ignoranza sono di rigore. La memoria è roba vecchia (roba cara ai «professionisti del dolore» che sono le vittime, sentenzia Cossiga): il mondo dei nuovi ideologhi vorrebbe sbarazzarsene.
Questa strana ideologia che si ammanta di spregiudicatezza ha un colore profondamente nichilista e procede mascherata, ma con una chiara idea della politica, della democrazia. Ostenta pragmatismo, ma il suo pragmatismo è traduzione eufemistica di opportunismo. Si proclama amante del vero, ma se chi vuol sapere sono i giudici o gli eredi delle vittime l’amore è sospetto. Pretende di privilegiare i fatti, ma quando poi i fatti si presentano (malaffare, stragi e depistaggi, terrorismo e natura dell’Islam europeo) solo l’utile che se ne può trarre e gli schieramenti hanno peso.
Così è per tutte le verità, nel nichilismo descritto da Nietzsche. Nessuna verità esiste in quanto tale, come ricostruzione fedele dell’accaduto («L’Essere manca», annuncia Zarathustra): sia quando il vero s’esprime nella morale, nella giustizia, o nelle leggi. La verità non la si scopre: la si crea al posto del Dio ucciso. La nozione di sostanza si sgretola, sgretolando anche l’Io col senso di responsabilità e di colpa che gli appartiene. Tutte queste cose – verità, valori, storia – sono sostituite dalla nozione di Utilità. A chi è utile e come render utile questa o quella verità, questa o quella ricostruzione dei fatti e dei mali? A chi profittano la domanda indagatrice, il dito indicatore? Per il nichilista attivo è la volontà di potenza che muove il mondo ed essa ha da esser legibus soluta, sciolta dalle leggi: «Se siamo tutti ingannati, dobbiamo divenire noi stessi ingannatori». La morale è resa possibile da errori come il risentimento, la schiavitù, il senso di colpa, l’obbedienza che Nietzsche attribuisce al cammello. L’uomo totalmente libero non è cammello, vola alto come un fanciullo, della verità prende ciò che gli serve.
L’uomo totalmente libero è innanzitutto un uomo di potere assoluto, che non tollera poteri concorrenti. Anche questo è tipico dei politici e degli intellettuali ideologizzati, che non vogliono veder confutata o limitata la propria verità: solo che oggi si fingono spregiudicati e pragmatici, nel momento in cui fanno quadrato attorno alla propria ideologia. Nell’essenza il nuovo ideologo non è democratico, se per democrazia si intende qualcosa di più che il prevalere della maggioranza. Democrazia è una storia lunga, che accanto al volere maggioritario ha instaurato, a partire da Montesquieu, un principio base: «Perché non si possa abusare del potere, bisogna che il potere freni il potere». È una verità semplice e breve: in Italia fatica a passare.
Il potere è sano se accanto a esso o sopra di esso operano poteri – i checks and balances, controlli e contrappesi – sufficientemente forti da poterlo frenare quando c’è pericolo di abuso. Questi poteri sono la magistratura e la stampa libera, nella società di oggi sono anche le varie associazioni di cittadini (minoranze, parenti delle vittime, risparmiatori) e non è un caso che contro di essi s’inalberino i poteri aspiranti a divenire solitari e assoluti. Questi ultimi danno, a simili poteri di controllo, un nome preciso: li chiamano Poteri Forti, e si propongono di renderli deboli e succubi. Per questo ha ragione Arturo Parisi, quando parla di questione morale e ricorda che l’obiettivo dell’opposizione non può essere la mera alternanza. O quando Prodi dice, a proposito della commistione fra autorità di vigilanza e politica: «O diamo un esempio e un messaggio di grande cambiamento, oppure è meglio che al governo non ci andiamo!» (La Stampa, 6 agosto).
Perché la questione morale si trasformi finalmente in qualcosa di fecondo occorre che alle storture italiane si risponda con determinazione, riconoscendole come storture e non rifugiandosi in dibattiti che trasformano tutte le verità e le leggi in quelle che Nietzsche chiama supposizioni. Occorre riconoscere che i poteri di controllo sono utili, non malvagi: è perché tali poteri hanno funzionato (attraverso il richiamo all’ordine da parte di persone come Sartori o Sylos Labini) che De Benedetti ha fatto marcia indietro, riconoscendo l’errore. Parlando di Banca d’Italia, il premio Nobel Robert Mundell è stato laconico: «L’importante è avere la reazione giusta» (Corriere della Sera, 4-8). «In Giappone, Germania, America si è reagito in modo deciso agli scandali», e proprio questo manca da noi. Le verità son sempre laconiche. Nel Decalogo, quella che Thomas Mann chiama la «quintessenza della decenza umana» è riassunta in appena dieci parole.
L’uomo che aspira a esser legibus solutus e smemorato è tuttavia pur sempre uno sciocco, alla lunga. Peccato per lui, che s’ostina a vedere solo il dito e cui sfugge la visione della luna. Pur di difendere il proprio mondo immaginario (il mondo ideologico) disimparerà a vedere il mondo com’è, le passioni che lo spingono, la sete di giustizia che lo agita, le alchimie che possono tenerlo in equilibrio. Non gli sarà stato utile, pensare che il mondo com’è sia o una mera supposizione, o un coacervo di poteri e ressentiments da sottomettere e tacitare.