Roberto Castelli fa un altro passo nella sua delirante jacquerie del diritto. In nome della Costituzione, dichiara guerra alla Repubblica italiana. Al presidente che ne rappresenta l´unità nazionale.
Ai giudici supremi che ne salvaguardano i valori. Con la cultura istituzionale che gli deriva dalla sua antica militanza rivoluzionaria tra le «camice verdi», e con la perizia giuridica che attinge al suo brillante passato di ingegnere meccanico, il ministro ci spiega che se la Consulta accogliesse il ricorso presentato da Ciampi sui poteri di grazia e sul caso Bompressi le conseguenze sarebbero «devastanti».
La nostra Carta costituzionale ne uscirebbe stravolta. Avremmo un presidente della Repubblica «con poteri enormi, che non ha nemmeno il presidente degli Stati Uniti». Fa piacere che questa appassionata e preoccupata difesa del dettato costituzionale arrivi da un guardasigilli padano. La Lega, se si vuole usare un eufemismo, non ha mai brillato per fedeltà ai principi della Costituzione.
È pur sempre quella che il suo leader, nel 1991 a Pontida, definiva «una forza barbara», la cui missione è dividere l´Italia e «creare tre repubbliche». È quel destabilizzante alleato della Cdl i cui ministri hanno sempre prestato «giuramento alla Padania», prima ancora di farlo al Quirinale nelle mani del Capo dello Stato.
È quello strano partito di lotta e di governo che, dal 2001 in poi, si è battuto per scardinare l´impianto costituzionale del ´48 con il grimaldello della secessione. Ha dato battaglia per disarticolare il tessuto dei diritti scritti nella prima parte della Carta, a colpi di leggi punitive sull´immigrazione.
Ha urlato contro «Roma ladrona», proponendo l´abbattimento dell´articolo 114 che fissa proprio a Roma la capitale d´Italia. Ha berciato contro «Forcolandia», chiedendo un referendum contro la Costituzione europea e contro l´euro, in evidente contrasto con l´articolo 75 che non ammette lo strumento referendario sulle leggi di ratifica di trattati internazionali.
Peccato che questa resipiscenza, apparente e del tutto strumentale, serva solo ad assestare un´altra spallata alle istituzioni. Con le sue continue provocazioni, Castelli pretende di insegnare la Costituzione a Ciampi, che ne è il sommo garante. Con i suoi presagi apocalittici, esercita una pressione indebita sulla Consulta.
Proprio lui, che del conflitto di attribuzione sollevato davanti alla Corte è una delle «parti», e dunque avrebbe il dovere di parlare solo per atti, e di esprimersi solo in giudizio. Il ministro aveva annunciato che avrebbe dato un giudizio ragionato sull´iniziativa del Quirinale a Pontida, a fine settimana.
A caldo, aveva anche detto che la mossa del Colle è utile, perché «serve finalmente a fare chiarezza». Evidentemente ha cambiato idea. Non c´è neanche da stupirsi troppo: quando parla da ministro, gli capita un giorno sì e l´altro pure.
Dopo l´attacco di ieri, non è in discussione il merito della controversia giuridica. Può non essere un´eresia ritenere che l´istituto della concessione della grazia, previsto dall´articolo 87 della Costituzione e disciplinato dall´articolo 681 del codice di procedura penale, sia un «potere duale».
Può non essere una bestemmia considerare la grazia un´attribuzione non esclusiva del Capo dello Stato, e interpretare come necessaria e vincolante (e non solo come «atto dovuto») sia l´istruttoria sia la controfirma del guardasigilli sull´atto di clemenza del presidente.
Diversi costituzionalisti, d´altra parte, si ispirano a questo criterio ermeneutico. Gli stessi uffici del Quirinale, fino a tre anni fa, nutrivano qualche legittima perplessità interpretativa. Se così non fosse, e se davvero la questione del potere di grazia fosse chiara e pacifica, Ciampi avrebbe potuto e dovuto agire autonomamente già da molto tempo.
E il ritardo di sette mesi con il quale ha chiesto l´intervento della Consulta (dal momento in cui Castelli ha rifiutato il decreto di grazia a Bompressi) sarebbe difficilmente spiegabile.
Quello che Castelli non può e non deve fare è un uso politico di questa vicenda. È invece quello che la Lega ha sempre ostentato, fin da quando Ciampi pose per la prima volta il tema all´attenzione delle Camere.
A più riprese le vite di Bompressi e Sofri (a prescindere dalle diverse convinzioni sulla loro colpevolezza o sulla loro innocenza) sono state buttate dai lumbard nel suk della politica, come una qualsiasi merce di scambio.
Lo stesso Capo dello Stato conferma implicitamente questa lettura, quando nel testo del ricorso alla Consulta l´Avvocatura scrive «la concessione della grazia esula del tutto da valutazioni di natura politica, e tanto meno può essere riconducibile all´indirizzo politico della maggioranza di governo».
Dal 2002 in poi, ministri e parlamentari leghisti hanno più volte connesso la vicenda dei due ex leader di Lotta Continua alle possibili grazie da concedere ai «serenissimi» che scalarono il campanile di San Marco a Venezia.
Nel luglio del 2003, in un´intervista a questo giornale, Umberto Bossi dichiarò testualmente: «Prima si approva la devolution, poi diamo pure la grazia a Sofri». Il 24 novembre 2004, nella lettera con la quale ha respinto la richiesta di grazia a Bompressi avanzata da Ciampi, Castelli ha ricordato testualmente le posizioni da lui espresse a proposito della modifica dell´articolo 87 della Costituzione, «del tutto favorevoli ad un esercizio esclusivo del potere di grazia da parte del presidente della Repubblica».
Ora, non si capisce quali sarebbero gli effetti «devastanti» di una pronuncia della Consulta che confermasse proprio quell´«esercizio esclusivo», dichiarato condivisibile dallo stesso ministro della Giustizia solo sette mesi fa.
Dunque, a che gioco stanno giocando Castelli e la Lega In campagna elettorale ormai aperta, è evidente l´intenzione delle camice verdi di recuperare il massimo dell´autonomia e della visibilità.
Nel fuoco della battaglia per il voto del 2006, che vede il Cavaliere affannosamente tentato dal recupero di un´ispirazione «moderata» per il suo centrodestra attraverso la propaganda sul partito unico e sulla sedicente ma seducente staffetta con Casini, Bossi e i suoi colonnelli hanno tutto l´interesse a rialzare i toni e ad accentuare il profilo movimentista, «eversivo» e anti-sistema, del Carroccio.
Ma questa autodifesa tattica e questa rivendicazione identitaria non possono avvenire a qualunque costo. In questi quattro anni di legislatura Berlusconi ha fatto pagare all´Italia un prezzo politico troppo alto, per sfamare gli animal spirits della primitiva Padania.
Per mezzo secolo l´istituto della grazia ha funzionato regolarmente, grazie alla «leale collaborazione» tra il Quirinale e Via Arenula. Ci sarà un motivo se proprio adesso deflagra il primo conflitto di attribuzione della storia repubblicana sollevato da un Capo dello Stato contro un guardasigilli. Di «devastante», in quello che è accaduto e sta accadendo, ci sono solo le sparate di Castelli. E se la vera grazia ce la facesse lui, tornando a fare l´ingegnere.