30 Agosto 2005
La grande coalizione
Autore: Luigi La Spina
Fonte: La Stampa
Lo slancio sacrificale di Berlusconi, ancora una volta non adeguatamente apprezzato dal partito di Follini, è solo la più recente conferma della profondità dei contrasti nello schieramento di centrodestra.
Del resto, l’autoelogio presidenziale, dalla dacia di Putin, dimostra come il premier italiano comprenda la necessità di una difesa dell’attività del governo e come avverta la latitanza dei suoi partner in questa operazione propagandistica.
Con un rischio di isolamento molto preoccupante, soprattutto per chi ha sempre trovato sull’onda dell’entusiastico consenso di fans e di alleati la spinta irresistibile per il successo, anche elettorale.
Sull’altro fronte, quello del centrosinistra, l’assenza ancora di un programma concordato tra i partiti che lo compongono e i vantaggi tattici che il ruolo dell’opposizione regala a chi ne fa parte, sul piano delle quotidiane responsabilità del governo, mascherano a fatica le distanze ideologiche e politiche, l’accesa competizione che si è aperta tra i Ds e la Margherita, le rivalità, le gelosie, le diffidenze che dividono i tanti leader di quello schieramento.
Questo quadro politico è tanto palese a tutti i cittadini che davvero fanno sorridere i sospetti di coloro che attribuiscono ai cosiddetti «poteri forti» trame complottistiche per candidature alternative, più o meno terziste o tecnocratiche.
Prima di tutto perché, nell’Italia d’oggi, abbondano le debolezze e scarseggiano le robustezze; poi, perché non c’è proprio bisogno di alti suggerimenti per capire quello che è così evidente a tutti.
Ecco perché i numerosi commenti che hanno fatto seguito all’intervista di Mario Monti alla Stampa, anche i più critici, non hanno contestato sostanzialmente l’analisi della situazione italiana dalla quale partiva l’ex commissario europeo.
Un intervento che ha avuto il merito di avallare, con l’autorevolezza del personaggio, un giudizio profondamente diffuso nell’opinione pubblica. La discussione che è nata da quella intervista, però, si è concentrata sulla questione del cosiddetto «grande centro», un’ipotesi molto irrealistica perché, come quasi tutti hanno ammesso, presupporrebbe la scomparsa di un sistema bipolare che ormai pare solidamente radicato sia nella struttura dei nostri schieramenti partitici sia nella mentalità e nelle preferenze degli italiani.
Più realistica, invece, appare un’altra ipotesi, sulla quale, in privato, molti ragionano, ma che, in pubblico, pochi sono disposti ad affacciare. Un’ipotesi che conserverebbe il sistema bipolare della politica italiana, ma che lo aiuterebbe a superare le difficoltà nelle quali ci troviamo: il ricorso alla cosiddetta «grande coalizione».
Il nome richiama il classico esempio tedesco per risolvere un passaggio difficile di una democrazia bipolare, quello della «grosse koalition» che, alla fine del 1966, i due leader, il socialdemocratico Willy Brandt e il cristiano-democratico Kurt Kiesinger stipularono per qualche anno.
Il richiamo alla Germania, peraltro, è anche d’attualità: nel caso di una vittoria non clamorosa di Angela Merkel sul rivale Schroeder, la soluzione di una grande alleanza tra Spd e Cdu è molto accreditata. Il parallelo italo-tedesco si potrebbe continuare nella notazione di una uguale reticenza della classe dirigente dei due Paesi a discutere questa ipotesi.
Facile capire il perché: ammetterla vorrebbe dire, per i leader di ciascuno schieramento, dimostrare di non aver sufficiente convinzione sulla possibilità di un netto successo elettorale o sulla capacità di governare con efficacia.
In Italia, sia l’improbabile resurrezione del «grande centro», sia la possibile «grande coalizione» prevedono un presupposto comune: la fine della leadership di Berlusconi nel centrodestra. Ecco perché la questione della guida della «casa delle libertà» accende gli animi e lubrifica i cervelli dei politici.
E’ evidente che fino a quando il Cavaliere sarà costretto al «sacrificio» della sua candidatura a Palazzo Chigi sia la prima, solo teorica, ipotesi, sia la seconda, più realistica, non possono realizzarsi.
Se, prima delle elezioni, per la scelta di un altro leader del centrodestra, o dopo, per una sconfitta alle urne dell’attuale premier, la guida del campo conservatore, invece, dovesse cambiare, la prospettiva si aprirebbe anche per la «grande coalizione».
Una scelta quasi obbligata se la vittoria di Prodi fosse assai striminzita o se i dissensi ideologici e politici nel centrosinistra dovessero portare a una impotenza decisionale insopportabile davanti alla gravità dei problemi del Paese.
Lo scenario della «grande coalizione», che comunque si aprirebbe dopo il voto del prossimo anno o dopo le prime prove del governo di inizio legislatura, spaventa soprattutto i Ds, come è evidente.
Se il partito di Fassino e D’Alema partecipasse all’esperimento «tedesco» chiuderebbe definitivamente il suo tormentato travaglio postcomunista, ma aprirebbe una profonda frattura con i gruppi più radicali della sinistra italiana che sicuramente si opporrebbero a questa ipotesi.
Se si tirasse indietro, rischierebbe di tornare a quel destino di permanente opposizione dal quale solo da poco si è affrancato. Insomma, per i Ds si tratta di vincere due battaglie: quella con la Margherita per la supremazia nell’Unione e quella, assieme a Prodi, per una netta vittoria elettorale del centrosinistra. Sperando che basti per governare l’Italia.