7 Ottobre 2005
La fortuna di Caracciolo
Autore: Chiara Beria di Argentine
Fonte: La Stampa
«Tu sei un mascalzone!». La scena madre tra il Principe e il Cavaliere dell’editoria italiana è ambientata nella palazzina di via Rovani, all’epoca quartier generale di Silvio Berlusconi. Milano, dicembre 1989. Vigilia della guerra per il controllo della Mondadori, protagonisti Carlo Caracciolo ed il suo partner storico Eugenio Scalfari alleati dell’ingegner Carlo De Benedetti e, sul fronte opposto, Berlusconi; comparse, nel poco elegante ruolo di «voltagabbana», gli eredi Formenton.
Racconta Caracciolo che quel giorno d’inverno, subito dopo un incontro con Luca Formenton dal suo legale, Alberto Predieri (i due negavano ogni trattativa con Berlusconi) andò in via Rovani dove era stato giorni prima invitato a cena. «Dopo qualche minuto apparvero Berlusconi e Confalonieri… il Cavaliere mi disse: “Carlo ti devo dare una notizia importante. Proprio oggi pomeriggio è stato concluso l’accordo. Abbiamo rilevato la quota Formenton”.
M’informava che la maggioranza della Mondadori era nelle sue mani. M’infuriai. “Tu sei un mascalzone!… Sai benissimo, oltre tutto, che esiste un’intesa scritta fra De Benedetti e i Formenton, in base al quale questi ultimi sono tenuti a vendere a lui le loro quote. L’accordo di cui mi parli non verrà riconosciuto a termini di legge”. Lui, pallidissimo ascoltava…».
Stop, per un istante, ai ricordi; altri al suo posto se ne sarebbero andati, non Caracciolo. «Non volevo disertare il campo, lasciando i due vincitori, Berlusconi e Confalonieri, a compiacersi fra loro… “Scusa, Silvio”, gli ricordai, “non dovevo trattenermi a cena? L’invito vale ancora?”. “Ma certo, Carlo», rispose con un po’ di agitazione.
Rivolto a Confalonieri aggiunse: “Naturalmente Fedele, tu rimani con noi”… Non si aspettava», chiosa Caracciolo, «che, incassato a gran fatica il colpo, reclamassi il pasto. Oltre tutto mi era venuto appetito, e provavo ora un certo piacere a imbarazzare il mio ospite. Non potevo perdonarmi il precedente scatto d’ira, più adatto a un cattivo giocatore che a me…».
L’infinita tenzone
L’episodio della stangata berlusconiana con relativo arrocco perfido-gastronomico del Principe, prologo di una infinita tenzone tra potentati persino per tratto e stile inconciliabili, è nel libro «L’editore fortunato», a cura di Nello Ajello (Laterza pag. 182, euro 14) uno dei capitoli più incisivi e rivelatori della tempra di Carlo Caracciolo di Castagneto, presidente del Gruppo Editoriale L’Espresso. Bis-compleanno.
Nato da un’idea di Ezio Mauro, direttore di Repubblica, il libro – una lunga intervista tra l’editore, 80 anni, il 23 ottobre e il suo vecchio amico, Ajello, già condirettore dell’Espresso, settimanale che festeggia proprio in questi giorni 50 anni di edicola – narra con la fortunata vicenda di uno degli ultimi editori “puri”, mezzo secolo di storia di un Paese poco liberale con la libera stampa. Da Adriano Olivetti a Fanfani, da Guido Carli a De Benedetti, da Flavio Carboni a Ciarrapico.
Al vertice di un gruppo con più di 3 mila dipendenti, Repubblica e altri 18 quotidiani, riviste, libri, supplementi, radio etc. Caracciolo, solo all’apparenza uomo distaccato e imperturbabile, ammette di essere una sorta di collezionista di giornali che vive in un harem cartaceo.
Un harem dove brilla su tutte da sempre la stella di Eugenio Scalfari – «è la persona che più di chiunque altro ha contribuito alla nascita e allo sviluppo di questa azienda» – dove s’intrecciano legami di lavoro con quelli personali – «fra Eugenio, De Benedetti e me c’è un’amicizia di quelle che nascono fra gente che combatte una battaglia comune» – e, dove, si coltiva la dimensione ludica e anche il gusto di frequentazioni malandrine. «Un douteux personnage», dice Caracciolo, «suscita in me più curiosità di un normale conoscente».
Ragazzino balilla
Tempo di festeggiamenti&souvenir. Con pochi amici festeggerà a colazione il compleanno dalla figlia Jacaranda, chef Vissani; ottimi cibi e vini, la proverbiale pennica, trionfalismo zero. «Run along» (vai, corri) diceva ridendo a Carlo, ragazzino in divisa da balilla, la madre americana, Margherita Clarke, che irrideva le adunate del regime.
E a quel certo understatement anglosassone Ajello attribuisce certi vezzi del principe, un seduttore scevro di tic da potere e da nostalgie: «Castagneto? Non so dove sia». Partigiano in Val d’Ossola, catturato dalla Decima Mas, salvo per pura fortuna (segnale premonitore?), azionista per tradizione familiare (il padre, Filippo, sottosegretario agli Interni nel secondo governo Badoglio per il Partito d’Azione era amico di Ugo La Malfa e di Adolfo Tino), Caracciolo inizia, nel 1950, a Milano, la partita della sua vita.
Prima mano: un imprenditore, tale Ulivi, regala al giovane squattrinato «Humus», una rivista di agricoltura; il padre che lo considera impazzito gli concede infine 50 mila lire al mese d’appannaggio. E’ nata una vocazione; tutto il resto è fiuto e azzardo. «Sui miei comportamenti agisce forse la passione per il gioco, dalla quale sono sempre stato animato», confessa Caracciolo abile negli scacchi e nel poker.
Secondo asso, nel 1955. Adriano Olivetti vuole fondare un settimanale e Riccardo Musatti, primo maestro di Caracciolo, gli offre di participare. I soldi? No problem. Li mette in prestito l’ingegnere (Olivetti, of course). Inizia la grande avventura. Direttore è Arrigo Benedetti («eccelso giornalista, era allergico ai numeri»), suo vice il giovane Scalfari. «Emanava sicurezza», ricorda Caracciolo che lo aveva conosciuto, nei primi Anni Cinquanta, a Milano.
«Aveva una sensibilità per i temi economico-finanziari, non solo a livello teorico». Nasce così la coppia più amorosa, prolifica e indistruttibile dell’editoria italiana. Presto Olivetti capisce che fare l’editore dell’Espresso significa esporre a ritorsioni la sua azienda: Caracciolo e compagni ereditano il settimanale. Bel regalo, certo, ma perde 100 milioni l’anno; è allora che il duo Caracciolo-Scalfari dimostra di saperci fare: raddoppia il prezzo del settimanale, mossa azzeccata.
«Capitale corrotta-Nazione infetta», magistrale titolo di un’inchiesta di Andrea Barbato. Inizia l’epopea di via Po (sede romana del settimanale) e di un clan di giornalisti duri, puri e intellettuali che credono in una sinistra più laica, democratica e moderna al quale è dedicata la parte più appassionata del libro. Scoop, scandali, grandi campagne sui diritti civili sono la cifra di quel giornalismo aggressivo e tagliente. Trattasi di «assoluzione di un compito civile», sostiene nel libro Caracciolo; pubblicità e guadagni verranno molto tempo dopo.
Quel filo rosso…
Da azionista a filo-Pci? Il fil rouge di tutto il racconto di Caracciolo è il tenace sostegno a Scalfari. E’ dalla parte di Eugenio quando Benedetti, ormai lontano da via Po, lo accusa di aver tradito la linea politica originaria del settimanale; lo difende anche ai tempi del micidiale scontro, nel 1974, tra l’Espresso e la Dc di Amintore Fanfani, quando Scalfari arriva a definire «avvocato di panna montata» il presidente della Fiat, Gianni Agnelli che, nel 1953 («mia madre era un po’ perplessa: un playboy in famiglia?») aveva sposato sua sorella, Marella.
Quella rievocata nel libro è un’altra brutta pagina del rapporto tra potere politico e giornali con la Dc che minaccia di bloccare l’aumento del prezzo delle auto («Per la Fiat una simile eventualità era gravissima») se Agnelli non convince Caracciolo a cedere in mani più amiche a Piazza del Gesù le sue quote dell’Espresso. Finisce con Caracciolo che resta nel suo gruppo ma deve vendere alla Rizzoli (fine temporanea del suo sogno d’espansione) Il Piccolo e l’Alto Adige e uscire dall’Editoriale finanziaria, unico suo affare con la famiglia Agnelli. Nubi tra cognati dopo quell’articolo di Scalfari?
«Agnelli aveva per consuetudine di non intrattenersi mai su argomenti sgradevoli», sostiene Caracciolo.
E, ricordando giorni più lieti trascorsi con gli Agnelli, aggiunge: «Per tanti anni ci siamo incontrati regolarmente sia a Torino che a Roma, con Marella ci sentiamo quasi ogni giorno…». Poche parole e qualche bella foto del suo album privato. Nel libro Carlo Caracciolo scopre appena la sua vita privata; i genitori, la moglie Violante Visconti di Modrone, scomparsa nel 2000, il fratello Nicola, la figlia Jacaranda; alcuni amici carissimi, da Emanuele De Seta a Cesare Garboli.
Nessuna concessione, insomma, al voyeurismo dilagante di chi nella vita ha scelto di creare giornali e non di apparire a balconi mediatici. Del resto, il gioco fuori dagli schemi sembra divertirlo assai. Il presidente del Clubino di Milano, Tonino Brivio, lo avvertì un giorno che era sgradito ai soci perché in odore di Pci? Risata con tanto di conferma di aver spesso, dai tempi di Berlinguer, votato comunista.
Quanto alla sua filosofia di editore Caracciolo spiega: «In un giornale ci sono tre forze: l’editore, il direttore e la redazione. In genere, ciascuna di queste tre forze cerca di prevaricare in qualche modo, invadendo il dominio delle altre. Ma non è impossibile che i reciproci rapporti procedano in maniera equilibrata. Quanto meno, bisogna provarci».
Altri giornali, altri direttori, altri equilibri. in «L’Editore fortunato» compaiono, elencati con cura, i molti nomi celebri del gruppo di via Po che, nel 1975, ha generato Repubblica e poi gli altri fogli. Ci sono anche quelli meno noti ai lettori ma altrettanto partecipi di questa avventura, dalla mitica segretaria di redazione, la signorina Lily Marx ai manager Gianfranco Alessandrini, Lio Rubini, Milvia Fiorani.
Con l’avvento di Carlo De Benedetti e di Mauro al posto di Scalfari, inizia una nuova stagione descritta nel libro con toni da «idillio aziendale». «Non mi ha mai imposto un suo punto di vista in maniera drastica», dice Caracciolo dell’Ingegnere.
Seguono complimenti al figlio Rodolfo, a Mauro, all’ad. Marco Benedetto: «Oltre che un collaboratore prezioso, un amico». Più che noblesse oblige trattasi di riconoscenza per l’obiettivo centrato. «Sfondamento orizzontale del messaggio», usa le parole di Scalfari, Caracciolo, per descrivere il gran finale di successo della sua storia d’editore molto chic e poco rampante.