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26 Settembre 2005

La falsa paralisi tedesca dopo le elezioni

Autore: Barbara Spinelli
Fonte: La Stampa

Nonostante i molti segnali che vengono dalla realtà, i politici in Europa e Occidente s’ostinano a non vedere quel che accade nei rispettivi loro partiti, nei rispettivi loro Paesi, e nel mondo. I verdetti elettorali li colgono di sorpresa, lasciandoli attoniti e patologicamente dipendenti dall’unica risorsa immarcescibile che hanno a disposizione: la vanità, con cui si guatano insistentemente allo specchio. Il caso della Germania che cerca un’introvabile maggioranza e un’introvabile cancelliere non è il primo della serie, ma forse il più interessante da osservare. La sua malattia è la malattia di numerose nazioni europee, e anche dell’America.


L’inadeguatezza dei suoi politici somiglia all’inadeguatezza di molti politici che ci circondano. È una malattia che si può riassumere così: i partiti e i politici non hanno il linguaggio, né per parlare agli elettori né per parlare al mondo. Sono preparati per le guerre di ieri, non per quelle che incombono oggi; per le società come erano fatte una generazione fa, non per le società di adesso. Sono come medici che prescrivono ricette a un infermo ricordandosi dell’ultimo malato che hanno esaminato, mesi o anni prima: al nuovo sintomo non sanno rispondere, e questo li spinge a parlare e agire ignorando la nuova realtà. Su una cosa i medici sconfessati alle urne o nei sondaggi sembrano d’accordo: se si potesse sospendere la democrazia, tutto andrebbe infinitamente meglio. Senza elezioni avremmo governi stabili, una costituzione europea, e le riforme che spaventano l’elettore.


La colpa è interamente del popolo sovrano, che in democrazia decide chi sale e chi scende: è lui lo stupido, l’immaturo. È lui che paralizza la politica, che blocca le trasformazioni, non regalando ai governanti solide maggioranze. Il popolo, «questo gran bifolco»: secondo il poeta Heinrich Heine, i potenti incolpano sempre e solo lui, dei disastri da essi procurati. Quel che sta accadendo in Germania è istruttivo, perché tutti gli ingredienti della nuova allergia democratica sono presenti. Son presenti i capi partito più o meno maltrattati dalle urne (Schröder, Merkel) e che ciononostante si fingono vincenti riducendo la realtà alla propria immagine sullo specchio. Sono presenti i politici-dottori che usano ricette non più adatte al paziente, e questo spiega come mai la terapia Thatcher sia da molti considerata non solo attuale, ma elettoralmente vincente.


Infine è presente il popolo screanzato, gran scompigliatore di buoni propositi: Edmund Stoiber, il cristiano sociale che guida la Baviera, non ha aiutato Angela Merkel candidata alla cancelleria il giorno in cui ha detto, con sprezzo, che l’elettorato dell’Est, essendo attratto dalle sinistre estreme, altro non è che un mucchio di «frustrati», cui «non bisognerebbe lasciare il diritto di determinare il futuro tedesco». L’ideale sarebbe insomma il non voto, dappertutto. Se oggi c’è stallo in Germania, se i politici non sanno escogitare governi stabili, se l’Europa politica non riesce a darsi una costituzione e una testa politica, è perché il popolo, disattendendo ogni creanza, vuole l’immobilità e impone il caos. È questa la ninnananna che cantano a se stessi i politici, e che rafforza l’insipienza di gran parte delle destre e delle sinistre, non solo in Germania: possibile che non sia possibile anche da noi una Thatcher? si domandano. Possibile che una maggioranza di tedeschi (se si calcola l’insieme di verdi, socialdemocratici, nuova sinistra) ha votato contro il liberismo della Merkel? È possibile invece, e anche se sgradita è pur sempre questa la realtà che i politici dovranno ora studiare, pensare profondamente, sempre che vogliano accordare quel che dicono con quel che vedono.


Esiste in effetti una maggioranza netta in Germania, che simbolicamente fa capo a Schröder, che di fatto include anche i frustrati dell’Est, e che non può esser frettolosamente descritta come maggioranza di bifolchi, favorevole al pantano e all’ingovernabilità. Forse questa maggioranza voterà Schröder cancelliere, in Parlamento, forse no. Ma di certo non è una maggioranza che pavidamente rifiuta l’esperimento Thatcher, per il semplice motivo che quest’ultimo risale a 26 anni fa e che nel frattempo una notevole parte di quelle ricette son state applicate quasi ovunque. I politici liberisti fingono ogni volta di ricominciare da zero, innalzando o ammainando la bandiera Thatcher quasi che esistessero Paesi restati completamente fermi per decenni, in Italia, Germania o Francia. La verità è ben più sfumata: molti sforzi di risanamento son stati fatti o sono iniziati da tempo – con o senza Thatcher, più o meno brutalmente – ed è sul modo in cui son fatti che il popolo giudica, reclamando non instabilità ma stabilità dei correttivi, delle compensazioni, delle solidarietà. Anche in questo caso la Germania è un esempio su cui conviene meditare, per capire lei e noi stessi.


Nelle riforme e nell’economia, essa non è in realtà per nulla stagnante: è stagnante la sua classe di politici; sono stagnanti la generazione del ’68 come quella ostile al ’68; è stagnante la politica economica, non l’economia. Molti descrivono una nazione sorpassata dalla mondializzazione, un modello fallito. Ma questo Paese che ha cinque milioni di disoccupati e un’economia interna che ancora non cresce è tutt’altro che immobile. Oggi è l’unico Paese che vede accresciuta la propria parte nel commercio mondiale, nell’export è il secondo in classifica, non teme la concorrenza cinese. E ancora: gli investimenti stranieri sono in forte aumento, i costi salariali scendono, le banche sono meno chiuse alle industrie, le imprese sono al terzo posto secondo il World Economic Forum. Inoltre sta mettendo radici una nuova cultura del conflitto: sempre più, le imprese negoziano con sindacati e lavoratori le strategie per avviare una metamorfosi nazionale senza troppo delocalizzare. È il caso della Bmw che intende aprire una nuova fabbrica a Lipsia, e Volkswagen si muove nella stessa direzione. L’economia è dunque ripartita, e interessante è il verdetto della banca d’investimenti Goldman Sachs: «Una gran parte della mutazione tedesca è già avvenuta, e continua ad avvenire, del tutto indipendentemente dalla politica» (la sconnessione non è nuova nel dopoguerra tedesco, ma più che mai visibile).


E cosa vuol dire: economia? Vuol dire imprenditori, banchieri, sindacati, impiegati, lavoratori, consulenti, banchieri centrali: vuol dire classe dirigente in senso lato. Questa classe dirigente funziona in Germania, sa estirpare da sola i propri mali, e qui è la forza democratica del Paese, a dispetto delle lentezze politiche o di chi nei giornali guarda solo i politici. Ventisei anni fa queste classi dirigenti avevano bisogno della Thatcher. Ventisei anni fa l’elettore non sapeva cosa fosse, e provò quella via. Oggi lo sa, l’ha già imboccata, e dopo aver negoziato direttamente con l’economia chiede che il processo sia governato con più fantasia politica e senso di giustizia. La Zeit scrive che mentre i politici si bloccano vicendevolmente, le imprese tedesche «hanno fatto un piccolo miracolo nel cosiddetto paese dell’inflessibilità»: il secondo miracolo, dopo quello postbellico. Chi dice che il voto paralizza la metamorfosi tedesca vede una parte ben piccola della realtà. In fondo tutti i cittadini son divenuti oggi più flessibili: più disposti a cambiare, correggere itinerari personali, ripensare la vita, il lavoro. Tutti, tranne i politici che questa flessibilità sono i soli a eluderla. Eppure sono grandi i compiti che hanno davanti. L’economia procede anche senza di loro, e precisamente questa sconnessione è una sfida: si tratta di restaurare il contratto sociale quando esso è minacciato, si tratta di ridare coraggio a chi si sente perdente, si tratta di reinventare un’Europa unita.


I politici in Germania dovranno cominciare soprattutto con una riforma del federalismo, perché sono decenni che i cancellieri non possono decidere, disponendo di maggioranze nel Parlamento federale ma non nella Camera dei Länder. L’elettore domanda una cosa al politico: che ricominci a pensare, ad agire, e non si limiti a constatare come fosse una litania: «Bisogna far riforme dolorose, non ci sono alternative ai sacrifici». Queste erano novità nel ‘79, oggi sono banalità che i più hanno interiorizzato. Oggi urge che a questa constatazioni si aggiunga qualcosa: un’idea, un progetto, adatto ai tempi e allo spazio europeo che viviamo. Finalmente tocca anche ai politici, divenire flessibili. I moderati di destra e sinistra devono imparare a fare un discorso diverso da quello thatcheriano: un discorso che dia senso agli sforzi già fatti e da fare. E le sinistre estreme, Fischer lo ha detto con chiarezza alla Tageszeitung, devono divenire partito di governo, dunque accettare di avere un’aspirazione al potere (un Machtanspruch) senza rifugiarsi nell’irresponsabile scontentezza sociale. Altrimenti una persona come Schröder si sentirà imbattibile grazie a questo serbatoio di sinistra, ma con esso potrà governare, se potrà, per poco tempo. Altrimenti non morirà l’economia, né nelle nazioni né nell’Unione europea; ma morirà la politica, non per mano d’un popolo senza creanze ma di politici senza mestiere.