Continua lo
sconcertante duello tra società politica e società civile che va avanti dai
tempi in cui grandi sommovimenti avviarono la nascita di quella che viene
chiamata Seconda Repubblica. Oggi si fronteggiano i fautori del referendum e i
sostenitori della via parlamentare alla riforma elettorale. Si fronteggiano gli
entusiasti di “una testa, un voto” e i prudenti conservatori di tradizionali
prerogative dei partiti; la Piazza e il Palazzo (così diceva già Guicciardini);
e tornano gli appelli alla democrazia diretta nelle nuove forme rese possibili
dalle nuove tecnologie, con inquietanti cadute nel populismo.
Ma in questo
panorama di vogliosa partecipazione “dal basso” vi è un illustre assente. Se è
giusto invocare “il popolo delle primarie”, perché ignorare, con poche
eccezioni, il ben più corposo “popolo del referendum costituzionale”, i quindici
milioni e settecentomila cittadini che il 25 e 26 giugno dell?anno scorso
respinsero la riforma costituzionale voluta dal centro-destra?Politicamente si è
trattato di un fatto di grandissimo rilievo. L’atto più significativo compiuto
dalla passata maggioranza venne respinto, è il caso di dirlo, a furor di popolo.
E, se è comprensibile che i perdenti vogliano cancellare quella vicenda,
sconcerta la perdita di memoria di chi si oppose con successo a quel disegno,
trovando tra gli elettori un consenso persino inatteso. Oggi questa memoria è
importante, perché le discussioni sulla democrazia partecipativa e sulla legge
elettorale si intrecciano con quelle riguardanti l’assetto generale delle
istituzioni.
È ovvio che la voce dei cittadini in un sistema ancora fondato
sulla democrazia parlamentare abbia accenti assai diversi da quelli che
compaiono quando si guarda piuttosto ad una democrazia d?investitura, alla
scelta diretta del Presidente del consiglio. E allora, per evitare che anche le
aperture verso un accresciuto potere dei cittadini diventino una delle tante
esercitazioni di ingegneria istituzionale che hanno fatto già troppi danni, è
necessario rispondere almeno a tre domande: quale dovrebbe essere il rapporto
tra partecipazione e rappresentanza? Quale può essere l?utilizzazione migliore
delle nuove tecnologie? Quali politiche sono necessarie perché la presenza dei
cittadini possa essere continua e incisiva?L’enfasi su referendum, primarie,
“una testa, un voto” si comprende se si guarda all’intollerabile deriva
oligarchica che attanaglia da anni il nostro sistema, che ha prodotto un
familismo politico sempre più avido di poteri grandi e piccoli, che ha
consegnato ad un numero ristrettissimo di persone il potere di stabilire la
composizione del Parlamento.
È vero che l’ultima degenerazione è figlia di una
riforma elettorale che ha sommato cancellazione dei collegi uninominali e
assenza delle preferenze. Ma è pure vero che gli effetti negativi sarebbero
stati almeno attenuati se la scelta degli eletti (non più dei candidati) fosse
stata affidata a strutture partitiche aperte e trasparenti. Proprio a questo
fine tendono le proposte di rivoluzionare la selezione dei gruppi dirigenti con
una ventata di partecipazione che vada al di là di chi è già iscritto ai
partiti. Vi è, in questa ipotesi, la speranza di una rigenerazione prodotta
dalla semplice presenza di un numero di persone incomparabilmente maggiore di
quello delle oligarchie centrali e delle loro riproduzioni locali. Ricordiamo,
però, come venne sterilizzato il popolo delle primarie: nessuna oligarchia muore
senza combattere. E un rinnovamento della democrazia dei partiti non può
avvenire senza mettere in qualche modo in discussione la personalizzazione
estrema della politica e senza una legge elettorale che affronti la questione
della rappresentanza.Siamo di fronte a due riduzionismi: il concentrarsi
ossessivo dell?attenzione sulla sola investitura del leader; la considerazione
del momento elettorale solo come scelta del governo, respingendo sullo sfondo la
scelta da parte dei cittadini dei loro rappresentanti. Non è un vizio nuovo.
Così, negli anni, è stata mortificata la politica, consegnata sempre più povera
nelle mani di pochi. Di questo non vi è consapevolezza. A dispetto del risultato
del referendum costituzionale si continua a proporre, in modo sfacciatamente
palese o mascherato, la scelta diretta del capo del Governo: esattamente quello
che il referendum aveva bocciato. Come parlare, allora, di attenzione per la
volontà dei cittadini? E si insiste su un referendum elettorale che favorirebbe
il permanere delle oligarchie, poiché obbligherebbe a coalizioni solo elettorali
e manterrebbe le liste bloccate.Si obietta che quel referendum è uno stimolo
senza il quale nessuna riforma elettorale sarebbe possibile. Molti vivono di
rendita su questo argomento, che sembra aver cancellato l?obbligo di riflettere
su quel che davvero è avvenuto nel sistema politico italiano da una quindicina
d?anni a questa parte. Si inneggia al bipolarismo come valore in sé, con una
forma di idolatria istituzionale che non fa bene a nessuno e che preclude la
possibilità di ammettere che si è creato un bipolarismo distruttivo, che ha
favorito e continua a favorire fenomeni degenerativi gravi. Proprio i fautori
del bipolarismo dovrebbero essere i primi a chiedere che di ciò si discuta, per
evitare che si ricorra ancora alle ricette vecchie, che contrastano proprio le
esigenze di rinnovamento.
La democrazia d?investitura e la personalizzazione
esasperata producono derive populistiche, che qualcuno potrà anche scambiare per
allargamento della partecipazione, ma che in concreto finirebbero con il
soffocare la nuova distribuzione del potere sociale e politico perseguita dai
sostenitori di una più larga presenza dei cittadini.La scissione tra
partecipazione e rappresentanza sta già producendo uno spostamento della
capacità rappresentativa verso modalità e luoghi che mettono in discussione non
le forme invecchiate della democrazia rappresentativa, ma la stessa logica
democratica. Si parla di un “neomedievalismo istituzionale” che, in un mondo
ormai senza più centro, fa emergere la realtà di grandi coalizioni d?interessi,
soprattutto economici, che s?impadroniscono del reale potere di governo,
utilizzando potentemente anche le nuove tecnologie. Lo stesso accade nella
dimensione nazionale, dove la capacità rappresentativa abbandona i parlamenti,
s?incarna nelle più diverse corporazioni, ci offre l?immagine di una società a
suo modo feudale. Post-democrazia o congedo dalla democrazia? L?insistenza sulla
partecipazione non può essere disgiunta da un ripensamento della rappresentanza
che tenga conto proprio del fatto che le tecnologie dell?informazione e della
comunicazione hanno già trasformato la democrazia, l?hanno fatta divenire
“continua”, hanno così cambiato il senso dello stesso momento elettorale.
Conosciamo i rischi che accompagnano questo modo d?organizzarsi della società:
la trasformazione dei cittadini in “carne da sondaggio”; l?illusione della
sovranità generata dalla possibilità di consultazioni ripetute, dove però i
cittadini compaiono solo alla fine di un processo decisionale al quale sono
rimasti estranei; l?utilizzazione delle opportunità tecnologiche per creare
nicchie propizie ai telepredicatori, a gruppi che si autolegittimano e si
sottraggono a qualsiasi forma di controllo democratico. Tutte derive
plebiscitarie, che aumentano il tasso di autoritarismo del sistema politico
dando l?apparenza della partecipazione.Le tecnologie devono consentire il
diffondersi del potere dei cittadini sull?insieme dei processi
politico-istituzionali, così riguadagnati alla logica della democrazia.
Questo
vuol dire dotare tutti di strumenti che consentano la conoscenza, la valutazione
critica, il controllo, l?elaborazione autonoma di proposte e strategie,
sottraendosi all?ingannevole logica dei “referendum elettronici” e trovando
nuove forme di integrazione con l?attività dei parlamenti. Questa è la strada,
che molti già cominciano a percorrere, di una nuova cittadinanza, in cui
l?accesso alla conoscenza diventa pure lo strumento per rimuovere il pregiudizio
dell?incapacità dei cittadini a dire la loro su molte materie, come avvenne al
tempo del referendum sulla procreazione assistita, quando l?affermare che si
trattava di materie ostiche, riservate agli specialisti, fu un?arma potente per
indurre all?astensionismo. Seguendo questa strada la contrapposizione tra
società civile e società politica si libera di molte tra le ambiguità che
l?accompagnano. E si può aprire la possibilità concreta di disegnare una nuova
sfera pubblica, affrancata dalle pretese autoritarie ed oligarchiche che
continuano a manifestarsi.