21 Ottobre 2005
La catena dei pasticci
Autore: Paolo Franchi
Fonte: Corriere della Sera
Si fa qualche fatica persino a scriverla, la parola devolution, dopo la stroncatura, quasi un’invettiva, ma un’invettiva fondata su ottime ragioni, che Claudio Magris le ha riservato sul Corriere .
Tocca però occuparsene lo stesso, magari chiamandola devoluzione, visto che ieri il progetto di riforma costituzionale del centrodestra (grosso modo quello partorito nella baita di Lorenzago, auspice Giulio Tremonti, dai quattro saggi, o presunti tali, della Casa delle Libertà) ha superato il suo ultimo passaggio alla Camera. Ancora un salto a Palazzo Madama, in novembre, e poi comincerà, proprio con la devoluzione , un lungo percorso a tappe.
Destinato a concludersi solo nel 2016. Quando, a coronamento del tutto, si voterà per la prima volta contemporaneamente per il nuovo Senato federale e per i consigli regionali. Meglio, però, rifugiarsi nel condizionale: il tutto potrebbe essere archiviato dal referendum, nell’autunno dell’anno prossimo.
L’opposizione (ma non solo l’opposizione) lo spera, anzi, ci conta. E, se così andassero le cose, non ci sarebbe di che dispiacersi. Anche per chi non si spinge a denunciarla come un attentato all’unità nazionale e alla democrazia, questa riforma è un pasticcio immangiabile: l’ennesimo risultato (stavolta a beneficio della Lega) della logica che tiene insieme il centrodestra, un do ut des continuo tra i partner, nel cui nome tutto, ma proprio tutto, Costituzione compresa, è oggetto di contrattazione e di scambio.
Ma questa non è solo una cattiva riforma, voluta e fatta dalla maggioranza da sola e a proprio uso e consumo, ripetendo e ingigantendo l’analogo peccato inutilmente commesso dal centrosinistra alla fine della scorsa legislatura.
È anche una riforma vagamente paradossale. Quando ne posero le fondamenta, nell’estate del 2003, i saggi di Lorenzago, così come Silvio Berlusconi e (eccezion fatta per Marco Follini) gli altri leader della Casa delle Libertà, coltivavano ancora la «religione del maggioritario»; e lo stesso culto, o la stessa filosofia, almeno ufficialmente accomunava i parlamentari del centrodestra che, introducendo qualche modesto cambiamento, ne assicurarono il cammino lungo i precedenti passaggi alle Camere.
Basta scorrere il testo della riforma (devoluzione sì, ma anche forte incremento dei poteri del premier, e ridimensionamento dei ruoli del capo dello Stato e del Parlamento) per ritrovarvene più di una traccia.
E, in fondo, è proprio in nome di questa filosofia che il centrosinistra è stato accusato (talvolta anche a ragione) di aver abbandonato, nella sua opposizione frontale, ogni ambizione riformatrice, per attestarsi invece su una posizione di conservatorismo costituzionale.
È vero che una cosa sono le Costituzioni, un’altra le leggi elettorali. Ma quei tempi, e quella filosofia, sembrano già lontanissimi. Perché di mezzo c’è il varo, da parte del medesimo centrodestra, di una riforma elettorale proporzionalista, o spacciata per tale: contraddittoria quindi, già nella sua ispirazione, con questa riforma costituzionale.
Tra un anno, gli stessi elettori che considerano una ferita grave l’avvento di un (cattivo) proporzionale probabilmente bocceranno, nel referendum, una riforma della seconda parte della Costituzione a suo modo (un pessimo modo) «maggioritaria».
A pasticcio si aggiunge pasticcio, a paradosso paradosso: tra i tanti possibili ritorni al passato questo è il peggiore. Non si capisce bene a che cosa stia brindando la Casa delle Libertà.