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4 Maggio 2005

L´ultimo “tributo” a uno Stato cieco

Autore: Giuseppe D'Avanzo
Fonte: la Repubblica

Appena cinque giorni fa da queste pagine Giorgio Bocca invocava che non si infliggesse «l´ultima beffa» alle vittime della strage di Piazza Fontana. La beffa di un altro processo e una nuova rappresentazione dell´«accademia dell´insabbiamento». Nel suo ragionato pessimismo, Giorgio Bocca ancora immaginava misure e accortezze scomparse e non più rintracciabili. Con l´assoluzione definitiva dei tre imputati (i «neofascisti» Delfo Zorzi, Giancarlo Rognoni e Carlo Maria Maggi), è stato risparmiato – alle vittime della strage – lo scherzo di un altro processo (il dodicesimo). Ma le contorte vie della legge sono riuscite a schiaffeggiare ancora una volta quelle famiglie. I China, i Passera, i Garavaglia, i Perego, i Maiocchi – tutti gli uomini e le donne che ostinatamente negli ultimi trentasei anni hanno cercato la luce della verità che, sola, avrebbe potuto finalmente rasserenarli – sono stati condannati, come si legge nel dispositivo della sentenza, «al pagamento in solido delle spese processuali».
È la prassi, si dirà. È la legge, sarà spiegato dall´addetto sapiente. Come accade sempre quando una mossa giudiziaria non trova il consenso dei giudici, risarcisci lo Stato che ha disperso, senza costrutto, risorse e tempo.
È così. È sicuramente vero. Ma nessun codicillo o norma cancellerà l´umiliante significato simbolico di quel «pagamento in solido». Il denaro che, domani, le famiglie delle vittime della strage di piazza Fontana consegneranno nelle mani di un ufficiale giudiziario sarà l´ultimo prezzo che pagheranno a uno Stato muto, cieco, sordo e colpevole, incapace di correggere se stesso e di fare luce nei sotterranei della sua storia. Quello Stato – questo Stato – non vuole fare mai i conti con se stesso e, in questa inettitudine, si mostra inaffidabile (e sarebbe il meno), ma soprattutto con i suoi passi perennemente storti riproduce, in un eterno ritorno dell´uguale, rancore, risentimento, divisioni attossicate che mai si pacificano. Mai trovano un luogo dove annodare finalmente i fili della responsabilità, della ragione e quindi anche di un futuro meno opaco.
La strage di Piazza Fontana nacque dentro lo Stato. In quella stagione di bombe e di morti innocenti, è stato scritto, «una parte consistente dell´apparato statale passò consapevolmente nell´illegalità». Si pose come potere criminale. Continuò a occupare istituzioni vitali. Da queste, fu protetto e tollerato. Lungo trentasei anni sono migliaia i «servitori dello Stato», poliziotti, giudici, agenti segreti, politici, cancellieri, ministri, passacarte e uomini di mano che «hanno cooperato per realizzare e poi coprire, depistare, insabbiare, rendere impunibile quel delitto» (Marco Revelli).
Quell´impunità, ancora oggi, è una ferita suppurata nel corpo della Repubblica, quale che sia il suo nome, Prima, Seconda o Terza. È una ferita che l´attraversa da cima a fondo e in ogni passaggio – da piazza della Loggia alla stazione di Bologna – ancora oggi porta con sé, come ombre alla sera, morti innocenti, responsabilità occultate, connivenze dimenticate. Ora non c´è più niente da fare. Sulla strage di piazza Fontana cala il freddo marmo. Non ci sono colpevoli. Non ci saranno mai più colpevoli.
Naturalmente sappiamo come sono andate le cose. Ha ragione il giudice di Milano Guido Salvini a ricordarlo. La verità giudiziaria non si esaurisce, non può esaurirsi sempre nella condanna dei singoli responsabili. Gli imputati sono stati assolti, ma la sentenza di appello, non contestata dalla Cassazione, ha concluso che quegli attentati furono di Ordine Nuovo. Nacquero, dunque, dentro una «strategia della tensione» che dal 1969 al 1980 suggerì 12.690 attentati, provocò 362 morti e 4490 feriti. Di cui 150 e 551 sono i morti e feriti di undici stragi: e la prima fu Piazza Fontana (17 morti e 80 feriti) e l´ultima, la più grave (85 morti e 200 feriti), fu consumata alla stazione di Bologna. Non basta sapere come sono andate le cose. Anzi, il saperlo senza afferrare un nome, un destino, chi è stato a spingere l´assassino, chi lo ha protetto, chi lo ha nascosto, chi se ne è avvantaggiato, trasforma la consapevolezza di sapere in offesa e umiliazione. In sdegno.
Nessuna democrazia occidentale ha conosciuto, come l´Italia, l´assassinio come strumento di lotta politica. Nessuna democrazia è stata così incapace e riottosa nell´indicare alle vittime, e a se stessa, le colpe e le responsabilità. Anche per perdonarle, alla fine. Anche per dimenticarle, finalmente. Anche per trovare nell´inferno, che ha diviso il Paese per una lunga stagione, buone ragioni per sentirsi oggi uniti e fiduciosi. Come non condividere i sentimenti dei familiari delle vittime che si dicono «nauseati e stanchi per un altro frammento di storia che si spegne nel mistero». Quella commozione è legittima e forse potrà essere spenta soltanto se quegli uomini e quelle donne non saranno lasciati soli con i loro ricordi amari. Forse sarebbe sufficiente a questo scopo un atto simbolico uguale e contrario a quello ammannito loro dalla Cassazione. Forse chi oggi rappresenta nel modo più limpido e alto l´unità nazionale, il presidente della Repubblica, potrebbe riceverli e chiedere loro scusa, a nome dello Stato italiano. Forse i magistrati italiani (l´Anm) potrebbero pagare loro «in solido» quelle spese processuali. Come se fosse un impegno a che non ci siano più stragi impunite e vittime senza verità e giustizia.