SU QUALCHE quotidiano dell´11 settembre si leggeva questa notizia: “Si toglie la vita una madre di Beslan”. Non c´era il nome della donna. C´era appena la circostanza: la madre di un bambino ucciso nel sequestro aveva riconosciuto il corpo del figlio, e subito dopo si è suicidata. Nient´altro. Nemmeno il modo. Gli psichiatri moscoviti che hanno ospitato molti fra i sequestrati di Beslan superstiti e fra i loro parenti avvertono che le persone a rischio – “depressione reattiva”, la chiamano – sono centinaia. Si era parlato soprattutto del furore di vendetta di gente di Beslan e del resto d´Ossezia, contro i tradizionali nemici ingusci. Ma anche la vendetta ha bisogno di una ottusa vitalità. Si può non desiderare più niente morire, soltanto. Chissà quanti anni aveva la donna che si è uccisa, chissà quanti ne aveva il suo bambino, chissà se aveva solo quel figlio, o ne ha lasciati, pensiero più pietoso, altri. Non sappiamo niente di lei: forse ne sapremo, i giornalisti sono bravi a stanare i sopravvissuti e le storie che spezzano il cuore. Bravi davvero: come col bambino dalla camicia bianca e le mani giunte dietro la nuca, che sembrava già destinato alla commemorazione senza fine, e invece era salvo, e l´abbiamo visto parlare alle telecamere, e aveva di nuovo la faccia di un bambino che racconta un´avventura. O forse la madre suicida resterà senza nome, senza storia, lei e la sua creatura, madre ignota di un bambino ignoto, una di tante, uno di tanti. Ora dirò forse una bestemmia, ma la lettura di quel titolo: “Si toglie la vita una madre di Beslan”, induce a un oscuro, involontario sollievo. È un gesto che riconosciamo, che ci permette di riconoscerci.
Non riusciamo più ormai a pensare la parola: suicidio, senza vedere il trattino che la lega all´altra, eccidio. Anche, e anzi ancora di più, quando si tratti di donne. C´era, nell´orrendo filmato dei sequestratori, quella donna dagli occhi giovani, coperta di nero e oscurata dall´ombra del vano di una porta, una pistola in mano. Faceva una grande impressione quella donna nera. Mi sono ricordato delle case cecene, degli uomini anziani seduti su poltrone o divani, degli uomini adulti accoccolati sul tappeto, e degli uomini giovani rispettosamente in piedi lungo le pareti. Le donne entravano, leggere e silenziose come fantasmi, a posare il tè e i dolciumi, e scomparivano. A volte affioravano dal vano di una porta, per ascoltare e guardare senza esser viste, pronte a dissolversi di nuovo, come creature d´acqua. Me ne sono ricordato guardando la donna buia sprofondata nel vano della porta, neanche nell´impresa assassina ammessa al centro della scena, tenuto dall´automa mimetico che indicava platealmente col dito lo scarpone abbassato sul detonatore. Poi la donna nera, e la sua compagna – insieme, dice qualche ricostruzione, dopo aver litigato, dice qualche altra – si sono fatte esplodere, avendo trascinato per mano un gruppetto di bambini.
Una compassione non può rinnegare nemmeno le donne diventate suicide-assassine, per desiderio di vendetta o per vergogna e costrizione o per esaltazione ebbra. Ma imperdonabile è, col loro gesto inumano, la profanazione del suicidio, la scelta più misteriosamente umana cui la nostra specie abbia imparato a fare ricorso. La madre di Beslan ha riportato se stessa e noi a questa umanità disperata ed esausta, strappandola alla contraffazione oscena di chi toglie vite per togliersi la vita. Triste è il suicidio, raccapricciante il martirio assassino. Oggi ci sono persone, sulla terra, che guardano gli uomini e le donne “kamikaze” e immaginano di poter fare come loro. Ce ne sono altre che pensano alla madre di Beslan, e sentono di poter fare come lei. È questa, la lacerazione della civiltà. Nello stesso numero del giornale – l´11 settembre – una notizia breve dalla Germania diceva che il numero dei suicidi vi è ormai doppio di quello delle vittime degli incidenti stradali. Nel 2002, diceva, si sono tolte la vita 11.163 persone (8.106 uomini, 3.057 donne). Il suicidio è al secondo posto tra le cause di morte dei giovani tedeschi di età compresa fra i 15 e i 24 anni. Neanche una di quelle migliaia di persone è stata tentata di usare il proprio suicidio per fare strage di nemici. Non hanno pensato che, morti loro, tutto fosse permesso. Non è successo, finora.
Il terrorismo degli shahid usurpa il rispetto che il suicidio si è guadagnato da millenni fra gli umani. Ogni suicidio è incomparabile con gli altri, lungo l´intera gamma della debolezza e del coraggio, della disperazione e della dimissione, della vergogna e del rancore, e tuttavia il suicidio è umano. Il suicidio-eccidio è disumano. Era una frontiera impensabile, è stata varcata. Per questo è giusto, benché sia poco, volere che gli attentati suicidi siano dichiarati crimini contro l´umanità.