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8 Febbraio 2007

Iraq, la guerra senza faccia

Autore: Bernardo Valli
Fonte: la Repubblica

Ci sono tanti tipi di guerre. Fin dai primi passi l´uomo ne ha inventate e praticate tante. E si può dire riassumendo che le ha considerate, secondo i tempi e le ideologie, tribunali dei principi, continuazioni della politica con altri mezzi, patologie sociali.


In che categoria collocare la guerra in Iraq? Nei nostri giorni, secondo gli studiosi dell´antico fenomeno ci sono gli ultra-conflitti (armi di distruzione di massa), gli iperconflitti (guerre mondiali, ´14-´18, ´39- ´45), i macro-conflitti (guerre internazionali o civili localizzate), i medio-conflitti (Algeria negli anni ´90, Irlanda del Nord, Palestina), i micro-conflitti (guerriglia o terrorismo limitati nello spazio e nel tempo), e gli infra-conflitti (rivalità armate, guerra fredda).


E´ evidente che non si tratta di una scienza esatta. I criteri sono soggettivi. La guerra in Iraq potrebbe rientrare in più categorie. Ad esempio nella quinta, quella dei micro-conflitti, alimentati da guerriglia e terrorismo. Ma sarebbe una collocazione riduttiva. Via via quella guerra, cominciata in modo classico (come un confronto armato tra forze militari di due unità politiche indipendenti) si è infatti maledettamente complicata.


La classificazione tiene conto della durata, dell´intensità e della natura. La guerra in Iraq doveva essere di breve durata ed è diventata lunga, anzi lunghissima. Non se ne intravede la fine. Sembra destinata a diventare cronica. L´intensità non è più debole ma forte. In quanto alla sua natura è difficile definirla: all´inizio era, appunto, un conflitto tra due Stati, ma poi è diventata interna (civile), pur coinvolgendo sempre forze militari straniere (quindi internazionale).


E adesso viene combattuta su quattro piani: 1) americani e governativi sciiti e curdi contro l´insurrezione armata sunnita (suddivisa in almeno due componenti: quella saddamista e quella musulmana integralista cosmopolita, ispirata da Al Qaeda); 2) gruppi terroristi sunniti autonomi contro gruppi terroristi sciiti altrettanto autonomi; 3) milizie sciite contro milizie sciite rivali; 4) americani contro milizie sciite insubordinate e legate all´Iran. Insomma si tratta di una guerra iperassimetrica, che confonde le idee degli strateghi e dei politologi.


Questo groviglio contribuisce a farne una guerra «senza faccia». Che suscita orrore, per le stragi quotidiane, ma spesso un orrore generico. Un orrore che conduce a condannare l´America di George W. Bush, all´origine di una guerra preventiva con motivazioni infondate (armi di distruzioni di massa inesistenti e altrettanto inesistente complicità tra Saddam Hussein e i terroristi dell´11 settembre), e adesso incapace di concluderla. Ma lo stesso orrore porta a condannare anche chi provoca stragi indiscriminate nella popolazione inerme.


Le immagini delle torture nel carcere di Abu Ghraib si alternano a quelle delle donne e dei loro figli dilaniati dalle autobombe in un mercato di Bagdad o davanti a una moschea di Najaf.

L´impressione che sia una guerra «senza faccia» non è certo dovuta alla mancanza di volti straziati. E´ creata dal fatto che quei volti ci appaiono come elementi di una massa anonima. Così ci vengono presentati. Sono annunciati con dei numeri.


Accendono la nostra attenzione quando i notiziari quotidiani ci danno l´ammontare delle vittime. A quale cifra sobbalziamo? Quale livello deve raggiungere il sangue iracheno versato per scuotere la nostra sensibilità? Cento? Più di cento? Duecento? Al giorno naturalmente e in un solo attentato. Se i corpi dilaniati in un mercato o davanti a una moschea sono soltanto alcune decine pensiamo, senza troppo riflettere, di istinto, che sia la solita routine, in quella guerra remota, che ci viene raccontata con i numeri.


Nella nostra civiltà delle immagini le guerre sono state riassunte da alcune fotografie che guardate anche dopo anni ci riportano in Algeria, in Vietnam, in Irlanda, in Bangladesh, nel Sinai, in Israele, in Palestina. O nel Ruanda, dove sui bordi delle strade, sulle piazze, nelle chiese, ci sono montagne di teschi e di varie ossa, umane ben inteso. Decine di migliaia di fotografie ci sono arrivate e ci arrivano dall´Iraq.


Ma nessuna riassume la tragedia irachena. Come se, appunto, quella guerra non avesse «una faccia». Come se i corpi straziati dalle bombe non avessero una storia. Non meritassero di essere raccontati. Non avessero un nome.


I numeri che quotidianamente ci rivelano l´orrore suonano spesso falsi. Anzi lo sono. Perché a comunicarceli sono le autorità, civili e militari, che in una guerra non sono tenuti a dire tutta la verità. E i cronisti sono limitati nei movimenti.


Possono difficilmente andare «sul posto» perché oltre ai rischi cui sono esposti i civili iracheni, corrono il pericolo di essere presi come ostaggi. Non ci sono dunque testimoni diretti e obiettivi. I numerosi ammazzamenti nei quartieri contesi da sciiti e sunniti non rientrano sempre nelle statistiche. Ed è raro leggere, ad esempio, cronache dettagliate delle tragedie negli ospedali, dove i feriti o i malati sunniti non vogliono essere ricoverati, perché non si fidano dei medici, se sono sciiti. E viceversa. Tante cifre, dunque, ma spesso false.


La guerra in Iraq suscita orrore ma non passioni di parte. Anche questo contribuisce a renderla «senza faccia». La passione può avere connotati antiamericani. Come tale esiste. Si è manifestata e si manifesta. Ma anche chi si augura una sconfitta americana («tipo Vietnam»), non si esalta all´idea di una vittoria dell´insurrezione armata, che pratica il terrorismo indiscriminato ed è imbevuta di un rudimentale fondamentalismo islamico. La guerra in Iraq è come un vicolo cieco.


Mi chiedo quanti morti siano necessari per accendere l´interesse dei cittadini occidentali. Cento? Più di cento? Duecento? Parlo delle quotidiane stragi irachene. La puntuale notizia dell´autobomba esplosa in un mercato di Bagdad o davanti a una moschea di Najaf è da tempo routine.